Tre le notizie importanti emerse ieri sul fronte dell’Autonomia regionale. La prima: in un intervento in Senato dai toni cauti e conciliativi il premier Giuseppe Conte ha piantato molti paletti sulla strada dell’autonomia regionale specificando tra l’altro che nel progetto non si prevedono «riferimenti all’introito fiscale» (insomma non c’è possibilità che il Veneto si tenga il 90% delle tasse come pure s’era detto) e che saranno rispettati non solo i «costi standard» ma anche «i livelli essenziali delle prestazioni» in tutt’Italia. Una frenata plateale, e non solo nei toni, che alcuni osservatori attribuiscono alla moral suation del Quirinale.
L’indicazione dei livelli essenziali delle prestazioni è importantissima. Tradotta in italiano vuol dire che l’autonomia regionale non potrà mettere in discussione nel tempo, e non solo per il primo anno come previsto in origine, la qualità dei servizi pubblici in tutta l’Italia e di conseguenza non potrà ledere il ruolo di Roma come Capitale e centro direzionale dell’intero Paese. Conte, insomma, ha indirizzato l’autonomia regionale su un percorso ben diverso da quello ipotizzato fino a poche settimane fa.
Per gli addetti ai lavori il riferimento ai “livelli” rende l’intero progetto meno squilibrato anche se restano moltissimi nodi da sciogliere. Sia sul passaggio di maggiori poteri alle Regioni su istruzione e sanità nonché sulle strade e sulla politica industriale che paiono a molti ancora francamente fuori misura, ingiusti e comunque non accettati dalle strutture e dalle persone che garantiscono quei servizi. Da mettere a fuoco anche i metodi di calcolo sulla distribuzione delle risorse, perché le medie nazionali cui pare si inizi a far riferimento possono rilevarsi uno strumento per danneggiare le regioni più povere.
Anche la composizione e la missione delle commissioni paritetiche fra Stato e Regioni che dovranno definire i dettagli della riforma restano in discussione. Nelle bozze attualmente in circolazione, alla Commissioni paritetiche viene dato il potere di «determinare» e non di «proporre» le risorse da distribuire per il passaggio delle materie. Ne consegue che ai commissari verrebbero dati poteri che normalmente spetterebbero al livello politico.
Seconda notizia: in una audizione della Commissione sul federalismo, la ministra per gli Affari Regionali, la leghista Erika Stefani, ha scattato una fotografia inedita dello stato dell’arte della riforma. «Da luglio sto lavorando sull’autonomia e sembra che nessuno se ne sia accorto - ha esordito la ministra - Sono contenta che nasca una discussione dentro e fuori il Parlamento. I testi non ci sono perché l’intesa non c’è. Non c’è l’accordo, i nodi da sciogliere sono numerosi. I testi che stanno circolando sono spesso errati, ci sono bozze che tali sono. La parte ambientale della sanità non è definita, sui beni culturali non vi è l’accordo, sull’istruzione c’è molto da decidere. I testi ci saranno quando ci sarà un accordo».
Lo sfogo della ministra è stato così netto e schietto che in serata il suo ufficio stampa ha diffuso una nota per ribadire che non può essere messa in discussione la volontà dell’esecutivo di varare al più presto l’autonomia regionale in quanto punto qualificante del contratto di governo fra 5Stelle e Lega.
Già, ma come sarà fatta questa riforma? E qui arriviamo alla terza notizia: sia il premier che la ministra competente ieri hanno sottolineato la necessità che sul dossier autonomia il Parlamento svolga un ruolo decisivo. «Spetta alle Camere decidere come affrontare il tema», hanno sottolineato sia Conte che Stefani. Anche questo è un passaggio cruciale, destinato a cambiare e dilatare nel tempo la riforma. Come noto, fino a qualche giorno fa si era detto che il Parlamento avrebbe dovuto votare a scatola chiusa, con un “sì” o con un “no” sia pure a maggioranza assoluta, i testi di legge figli delle intese fra Regioni e governo. Ieri il quadro è definitivamente cambiato: i presidenti della Camere potranno decidere di lasciare ai parlamentari il potere di emendare i testi oppure quello di definire nelle aule la cornice dentro la quale - in futuro - governo e Regioni potranno trattare.
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