Peccato che non ricordiamo alla perfezione la storia di Pinocchio. Saremmo stati coinvolti maggiormente. Non la ricordiamo bene perchè in realtà noi il famoso testo di Collodi, al quale si è ispirata Lucia Ronchetti per questo suo secondo Pinocchio commissionatole dall'Ensemble Intercontemporain ed ora approdato in Italia, in traduzione nella nostra lingua, non l'abbiamo mai letto. Ora è inutile stare a spiegare il perchè e per come, e comunque anche l'avessimo letto, non saremmo riusciti a tenere a mente tutti i particolari che fanno la bellezza di una favola: non abbiamo molta propensione al racconto particolareggiato, che fa invece la gioia dei bambini.
Ieri sera, se si fosse scelto un altro luogo, al posto dell'inospitale sala ottagonale del Planetario (dove comunque in questi giorni viene replicato per i ragazzi: il pubblico ideale) dove Romaeuropa e l'Opera di Roma, hanno deciso di ospitare lo spettacolo della Ronchetti, anche noi avremmo potuto godere della vecchia classica favola del burattino. E invece no. Perchè la Ronchetti avrebbe meritato per il suo Pinocchio tradotto in italiano ed affidato alla multiforme capacità di interprete della protagonista, il soprano inglese Juliette Allen, un teatro vero e proprio, con un palcoscenico, anche raccolto, dove il pubblico poteva vedere ciò che accadeva ed ascoltare distintamente tutto ciò che la protagonista andava raccontando. Un elemento essenziale della favola, di ogni favola, dove i particolari contano molto.
Nella sala ottagonale con le sedie disposte su quattro file, in circolo, tolta la prima, tutte le altre hanno visto metà dello spettacolo, che si svolgeva in piano, ed ascoltato ancora meno del racconto, perchè la protagonista, che andava microfonata - anche se probabilmente nella sala suggestiva ma inadatta, la voce si sarebbe comunque persa - non lo era. E dunque solo quelli che le stavano di fronte hanno potuto seguire le avventure del burattino, più raccontate che cantate, senza perdersi una sillaba.
Il teatro di Lucia Ronchetti, in Italia evidentemente non apprezzato come all'estero, è un teatro 'povero', 'teatro del suono', nel senso che si è abituata a concentrare la 'drammaturgia' nel suono, e a lavorare sempre con pochi mezzi (nel nostro caso: violino, violoncello,contrabbasso, corno, percussionista e servitore 'muto', dell'ensemble parigino - Intercontemporain - avvezzo ad esibirsi in ogni situazione con identica encomiabile bravura e naturalezza), ma lavorando di fantasia, per farla correre libera, dove vuole, anche lontano dalla scena che non c'è.
Nel caso di Pinocchio, sia la vocalità della protagonista, che attingeva qui e là dall'intera storia della vocalità melodrammatica, che la parte strumentale, la quale ancor più della vocalità, non si faceva scrupolo di riproporre un ricco campionario di citazioni, perfino il Rota per una celebre passerella di Fellini, in effetti riproduceva nella musica una tecnica della narrazione, tipica delle favole, dove la ripetizione di parole ed espressioni le rendono sempre così accattivanti per i piccoli che proprio i particolari non dimenticheranno mai, anche da grandi.
I ragazzi, anzi i bambini presenti non erano molti, mentre sarebbero stati il pubblico ideale ( forse lo saranno nelle repliche di questi giorni). Mentre abbiamo visto gente di ogni età, perfino 'diversamente giovani', venuti ad ascoltare; alcuni, non per solo obbligo istituzionale, come ad esempio l'addetto stampa dell'Opera di Roma (che coproduceva il Pinocchio con Romaeuropa), l'anziano Renato Bossa, che si è divertito un sacco, in compagnia del suo sovrintendente Carlo Fuortes, seduto in prima fila e dunque fra i pochi che si è goduto tutto lo spettacolo senza perdersi nulla, ammesso che non si sia distratto per qualche comprensibile ragione.
Pubblico soddisfatto.
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