Una manciata di leader stranieri amici (arrivati da Bolivia, Cuba e Nicaragua) sono accorsi a festeggiare il chavismo al potere da ormai un ventennio, mentre risaltavano le assenze e piovevano da ogni parte le dichiarazioni di ripudio.
Maduro ha frantumato da tempo in Venezuela tutte le regole della democrazia, ma da ieri è formalmente un «usurpatore», come lo definisce il Parlamento venezuelano quasi estinto, perché è iniziato il mandato stabilito dalle elezioni dello scorso 20 maggio, anticipate per convenienza del regime.
In quella occasione il regime impedì la partecipazione dei principali leader dell’opposizione, così come ogni controllo indipendente sul voto. Furono una farsa, insomma. Nel frattempo l’esecutivo aveva tolto ogni potere al Parlamento, dominato dall’opposizione. Il successore di Hugo Chávez ottenne facilmente la rielezione, ma il risultato venne riconosciuto solo da alcuni Paesi alleati (tra i quali gli alleati Russia e Cina) e da nessun oppositore interno. Da ieri, la presa di distanza di quasi l’intero Occidente diventa dunque un fatto diplomaticamente rilevante.
Il primo Paese a rompere le relazioni con Caracas è stato il Paraguay, un’ora dopo il giuramento di Maduro. Il presidente Marito Abdo ha ordinato la chiusura dell’ambasciata del Venezuela nel suo Paese e l’espulsione della rappresentanza. Il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani ha definito il mandato «illegittimo» il mandato di Maduro. «Ho appena parlato con il presidente dell’Assemblea nazionale Juan Guaidó, l’unica istituzione che riconosciamo. Continueremo a lottare per la liberazione dei prigionieri politici e la democrazia in Venezuela», ha scritto Tajani.
«Usurpatore» è anche il termine usato dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo. In molti chiedono nuove elezioni pulite al più presto. Un atto più formale l’ha compiuto l’Oas, Organizzazione degli Stati americani, votando una risoluzione di non riconoscimento della legittimità del governo Maduro.
Nel consiglio del gruppo hanno votato a favore diciannove Paesi, con sei contrari e otto astensioni. C’è poi il gruppo di Lima, formato da 14 Paesi del Continente con l’obiettivo di risolvere l’impasse in Venezuela. È questo il principale obiettivo degli attacchi di Maduro, che considera il gruppo una «banda di traditori» intenzionati, insieme a Washington, ad organizzare un golpe contro di lui. In una conferenza stampa alla vigilia dell’insediamento il leader chavista ha minacciato di rompere lui tutte le relazioni diplomatiche con i latinoamericani, se il suo secondo mandato non venisse riconosciuto.
La pressione diplomatica arrivata al livello massimo aiuta, però, poco a prevedere se dal quadro della tragedia venezuelana sorgeranno finalmente novità vere. L’opposizione interna è stremata dalle difficoltà della vita quotidiana e dalla fame. Le manifestazioni di massa degli anni scorsi sono impossibili da ripetere quando c’è da passare ore in fila per trovare cibo a prezzi decenti o denaro in un Bancomat. Molti tra coloro che marciavano nelle strade sono ormai all’estero, e i leader politici in galera o ai domiciliari.
L’inflazione ha raggiunto livelli talmente surreali (l’Fmi prevede 20 milioni per cento nel 2019) che la moneta nazionale sta sparendo di circolazione, così come il valore degli stipendi è diventato irrisorio rispetto ai prezzi. Le numerose sanzioni fissate dagli Stati Uniti (che però ancora comprano il petrolio venezuelano) hanno ulteriormente strangolato il sistema finanziario e le importazioni.
Nessun commento:
Posta un commento