distopìa2 s. f. [comp. di dis-2 e (u)topia]. – Previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia e per lo più in aperta polemica con tendenze avvertite nel presente, si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi (equivale quindi a utopia negativa): le d. della più recente letteratura fantascientifica.
Si legge questo sul dizionario Treccani alla parola DISTOPIA, dalla quale deriva, ovvio, l'aggettivo DISTOPICO che il Corriere della Sera ha utilizzato nel titolo della presentazione, a firma Valerio Cappelli (nelle solite due pagine 'Eventi' a pagamento) della Turandot di Puccini che, diretta da Gabriele Ferro, inaugura la stagione al Teatro Massimo, con la regia di Cherstich , autore dell'opera- camion che circola fra Roma e Palermo e con le scene avveniristiche di un collettivo russo (AES+F il suo nome in sigla) che ha spopolato alla Biennale di Venezia.
Per noi, che comunque siamo regolarmente immersi nella lettura di qualcosa, siano libri o giornali, e non passa giorno senza che lo facciamo, nell'aggettivo Distopico è la prima volta che ci imbattiamo e per questo , pur potendo risalire al suo significato ricorrendo all'etimologia di tale parola, evidentemente composta, abbiamo preferito, per fare prima, ricorrere al dizionario. Il quale ci ha svelato che il mondo nel quale è ambientata la Turandot del Massimo di Palermo, è quello del prossimo futuro, in una utopia che non ci piace affatto.
Nella lettura del pezzo poi siamo venuti a conoscenza delle infinite allusioni cui ricorrono il collettivo russo ed il regista. C'è di tutto in quella Turandot. E allora, dopo la fatica di scoprire il significato di quel termine - altrettanta fatica avrà fatto il pur dotto cronista del Corriere - ci ha assaliti il dubbio che gli spettatori usciranno dal teatro soddisfatti per aver ascoltato la musica di Puccini, ma contrariati dal fatto che, ambientandola in quel DISTOPICO mondo futuro, di cui non ci hanno capito un bel niente, hanno corso, in più punti, il serio pericolo di essere distratti dalla Turandot di Puccini.
P.S.
Se proprio si voleva essere rivoluzionari nella regia - e il trasferimento del regista dal Teatro dell'Opera della Capitale, dove la regia solo se rivoluzionaria viene ospitata, al Massimo di Palermo, era naturale premessa di una tale visione - noi avremmo fatto impersonare Turandot ad un uomo il quale fa decapitare chiunque sia invidioso del suo successo ed anzi voglia prendere il suo posto.
Ai Palermitani sarebbe parso più semplice da capire, l'esempio lo avevano fresco fresco sotto gli occhi: Francesco Giambrone-Turandot, sovrintendente e principe palermitano, figlio dell'imperatore sindaco Orlando-Timur, fa decapitare uno dei pretendenti, ma non alla sua mano - dove comunque non ci sarebbe stato niente di strano, siamo ormai abituati - bensì alla sua poltrona, Oscar Pizzo, licenziato/decapitato solo qualche mese fa, come del resto Giambrone-Turandot aveva fatto qualche tempo fa con un altro pretendente alla Sovrintendenza, dove si credeva ormai al sicuro, il prof. Cognata.
E' evidente che in questa visione non c'è posto per nessun Calaf, essendo ignota alla principessa la parola 'amore', e perciò nessuno dei pretendenti può sperare nella grazia, nel mondo distopico della Palermo attuale, dove in cima alla grande scalinata del Massimo si erge, amò di avvertimento, un patibolo e il suo boia.
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