È passato un anno, e la guerra è ancora lì. E inasprita. Se l’aspettava, professor ? «In parte sì. Gli esperti mi spiegarono all’inizio del conflitto che Putin aveva mandato meno di 200 mila uomini, mentre per un territorio come l’Ucraina ne sarebbero serviti almeno 400 mila. E dissero che dopo un assaggio sarebbe tornato indietro. E invece… Ha fatto tre errori di valutazione. Oltre ai soldati, pensava che gli ucraini lo abbracciassero e che l’Ovest non avrebbe reagito. Si è sbagliato su tutta la linea. E ora la via d’uscita diventa più difficile».
Romano Prodi, ex premier ed ex presidente della Commissione Ue, non nasconde una punta di pessimismo. E in questa intervista al Corriere analizza le incognite del presente e del futuro: a partire dall’avvicinamento tra Cina e Russia. D’altronde, temeva da tempo che l’atteggiamento dell’Occidente avvicinasse questi due Paesi.
In effetti, le distanze stanno diminuendo. «A me pare che Russia e Cina siano alla stessa distanza del primo giorno di guerra. La Cina ha sempre parlato e ancora parla di amicizia imperitura, ma di confini intangibili. E le due cose non sono facilmente conciliabili. Comunque la Cina non sembra avere nessun vantaggio da questa guerra iniziata da Putin».
Eppure Wang Yi, capo della politica estera, è appena stato a Mosca. E gli Usa parlano di armi cinesi alla Russia. « Se Pechino fornirà armi a Mosca, allora le cose cambieranno. Ma finora mi pare non sia stata inviata nemmeno una pallottola. La visita di Wang Yi mi sembra che si inquadri più sullo sfondo delle tensioni tra Cina e Stati Uniti, che già esistevano e si sono esacerbate. E di un fossato con l’Ue che prima non esisteva, e oggi si sta creando. In realtà la Cina compra tempo, mentre l’America ha fretta. Questo peraltro è uno spartito prevedibile quando si confrontano una potenza stabilizzata e una ascendente. La Cina ha bisogno di acquisire ancora tecnologie, di alzare il livello del benessere, di aumentare il suo potere. Mentre gli Stati Uniti hanno già raggiunto questi obiettivi».
Tra Covid e conflitto in Ucraina, in realtà, l’ascesa della Cina sembra essersi fermata. E in Occidente si comincia finalmente a capire che le autocrazie non funzionano meglio delle democrazie, anzi. «È vero che per un certo periodo si è fermata. E giustamente i media occidentali hanno preso atto di questa pausa. Ma la durezza e la rapidità con la quale la Cina prima ha chiuso il Paese per Covid, e poi lo ha riaperto, sono impressionanti. Per questo motivo nelle ultime settimane gli osservatori occidentali hanno cambiato registro e arrivano perfino a dire che la ripresa cinese sarà tale da far aumentare di nuovo il prezzo dell’energia e delle materie prime».
La rapidità decisionale, però, sembra frutto soprattutto di decisioni politiche. E questo solleva molti dubbi. «Sono dubbi fondati. Non sappiamo neanche come è partita l’infezione. E ancora c’è chi si chiede se la Cina ha superato la grande crisi del Covid. L’accentramento del potere nelle mani del Partito comunista è figlio della dottrina di Xi Jinping. Il partito regola tutto, perfino l’antitrust. Se il regime cinese ridimensiona il potere delle imprese della Rete, e in Occidente invece lo subiamo, diventa un problema serio. Mi chiedo perché le democrazie non siano più attente ai corretti rapporti tra politica ed economia che sono la base della democrazia stessa».
Pensa che il conflitto in Ucraina sia la polizza di assicurazione per il governo di ? «Non necessariamente. La via è obbligata per tutti i governi europei. Nato e Ue non hanno mai coinciso tanto come oggi. Semmai, chiediamoci come questo avviene. Chiediamoci perché gli Stati Uniti privilegino l’alleanza con i Paesi est-europei; perché Joe Biden sia andato a Varsavia ma non a Bruxelles. Se quella di dividere i nove Paesi orientali dall’Europa dei fondatori è una strategia, si porranno presto scelte drammatiche anche per il nostro governo».
Lei che risposta si è dato? «Gli Stati Uniti dovrebbero avere interesse a un’Europa unita. Ma non vorrei che premessero sull’Europa orientale e le sue nove nazioni perché i restanti 18 membri capiscano come va declinata l’alleanza atlantica. D’altronde, questo è possibile perché manca una politica estera e di difesa comune all’Ue. Gli Usa sembrano scommettere su un gruppo minoritario, ma coeso soprattutto nell’ostilità alla Russia. In questi anni, le difficoltà delle istituzioni europee hanno fatto emergere queste differenze. Dopo l’allargamento, l’integrazione si è come addormentata; ma è bene che l’allargamento sia stato fatto, altrimenti oggi la Polonia si troverebbe come l’Ucraina».
In Italia, invece, colpisce l’amicizia ostentata tra e Putin. Da che cosa nasce secondo Lei? «Guardi, si è parlato anche di intrecci economici tra i due, ma sinceramente non saprei. So però per esperienza diretta che quelli personali erano strettissimi. Una volta, quando governavo, ero con Putin e il premier francese. E Putin mi chiese di premere sull’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, perché permettesse a Berlusconi di riavere il passaporto, che gli era stato ritirato per motivi giudiziari, in modo da consentirgli di andare alla sua festa di compleanno. Risposi che la cosa non si poteva proprio fare. E meno male che il collega francese spiegò a Putin che avevo ragione».
Cambia qualcosa per la politica estera del Pd se verrà eletta alle primarie o toccherà a? «Nessuno dei due ha margini di scelta. Le vie sono obbligate».
Lei ha scelto per chi votare? «Certo, e ho progressivamente orientato la mia scelta. Ma mi permetta di non esprimerla. Magari sarò presuntuoso, ma voglio mantenere un ruolo super partes».
Pensa che il sistema politico si sia stabilizzato, almeno al governo? «L’evoluzione è ancora in corso. Come avevo detto fin dall’inizio, la Meloni sarebbe stata obbligata ad avere un ministro degli Esteri “americano”, e un ministro dell’Economia “bruxellese”. E avrebbe dovuto utilizzare il resto per accontentare una difficile alleanza. E direi che le cose stanno così. Quindi il ruolo dell’opposizione è assai complicato. Giorgia Meloni ha dovuto far proprio il precedente quadro internazionale. All’opposizione spetta invece il compito di costruire l’agenda della nuova Italia di cui abbiamo bisogno».
Le opposizioni perdono perché sono divise, o perché è impossibile metterle insieme? «Se il Pd facesse vere e credibili offerte di riforma, assorbirebbe automaticamente gli altri. L’affluenza alle primarie è finora notevole. Il mio amico e cofondatore dell’Ulivo, Arturo Parisi, ha notato che si è recata a votare, in questa prima fase delle primarie, più gente di quanta non abbia partecipato a tutte le consultazioni dei grillini, pur essendo queste semplicemente online. E poi non si costruisce l’opposizione su singole proposte per prendere voti, come il Superbonus al quale peraltro sono sempre stato contrario».
All’estero sono preoccupati per l’Italia? «Sì, ma non tanto per il colore delle varie coalizioni. Temono la politica-petardo, parlano di fireworks, fuochi d’artificio. I partiti tradizionali sono in crisi ovunque, ma siamo l’unico Paese dove un partito o un leader prende il 40 per cento, e pochi mesi o anni dopo il 4. Pensiamo a Renzi, al M5S, alla Lega. Questo governo è nato per due terzi coi fuochi d’artificio, per un terzo con la politica. La domanda che si fanno all’estero è se alla fine vincerà davvero la politica, o se il governo Meloni sarà l’ennesimo, effimero, petardo».
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