Non tutte le parole sono uguali. Alcune devono superare cancelli chiusi a tripla mandata, come quelli dei ragazzi in carcere. Non cercano la nostra pena. “Cosa vorreste dire di fronte a una platea così importante?”, chiedo ad uno dei giovani di questo carcere minorile. “Digli che rubare non è il mestiere mio”. A cosa ti servivano quei soldi? “A fare il brillante. Era come a dire guardatemi, esisto anche io”. Non avevi paura a compiere una rapina? “Tanto prima o poi dobbiamo morire. Non siamo bestie o killer per sempre”. Da quanto non vedi tuo padre? “Adesso dopo tre anni. M sono messo a piangere”.
Hanno ucciso e rapinato, ma non trovano la domanda al perché l’hanno fatto. Bisogna andare al giorno, al mese prima, alla vita prima. Hanno 15 anni e gli occhi pieni di vuoto. Lo sguardo perso o sfidante, e chiedono aiuto.
La scuola l’hanno abbandonata, ma nessuno li ha mai cercati. Le madri e i padri non ce l’hanno fatta. Agli adulti in carcere ho chiesto: “Cosa cambieresti della tua vita?” E mi hanno risposto: “Sarei andato a scuola”. Solo così puoi trovare una vita alternativa a quella già scritta per te da altri. Lo Stato deve combattere la dispersione scolastica e garantire pari opportunità ai più giovani. Lo Stato dovrebbe essere più attraente dell’illegalità.
Abbiamo fallito tutti, ma il tuo destino non è irreversibile. Se ritorni in carcere, lì è davvero finita. In Italia la prigione serve a punire il colpevole, non a rieducarlo o inserirlo nella società. Un autorevole magistrato ha detto che è contrario a uno schiaffo in caserma, perché non deve passare per vittima. Un detenuto non deve essere picchiato perché lo Stato non deve applicare le leggi della sopraffazione. Chi esce dal carcere deve essere meglio di come è entrato, altrimenti sarà una sconfitta. Conviene a tutti che quel rapinatore, quello spacciatore, una volta fuori cambino lavoro.
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