Racconta nelle ultime ore un ministro dei suoi vecchi governi, che gli è rimasto affezionato e con cui si sente spesso, che «il problema di Conte non è Draghi ma Grillo». Racconta che « Draghi è finito in mezzo» a una faida politica tra omonimi, Giuseppe contro Beppe e viceversa; che «se Grillo avesse dato il via libera al terzo mandato dei parlamentari, le nuove tensioni tra il M5S e il governo sarebbero riesplose semmai dopo l’estate»; insomma, che «tenere sulla corda il presidente del Consiglio e l’esecutivo, a cui Grillo tiene tantissimo, è l’ultima strada per provare ad avere finalmente mani libere da capo politico».
Che abbia tutte le ragioni del mondo, come sostengono gli amici, oppure che non ne abbia neanche mezza, come ripete la pletora di nemici, il Giuseppe Conte delle ultime settimane abbandona la strada di quel «governismo dolce» quasi oltre i limiti del buonismo, che ne aveva accresciuto gli indici di popolarità prima, durante e anche dopo l’esperienza di Palazzo Chigi; e veste i panni del barricadero socio di una maggioranza di governo che passa il tempo a tenere l’esecutivo sul filo del rasoio, minacciando dietro le quinte l’appoggio esterno salvo poi smentirlo (ieri), ventilando voti contrari che all’ultimo minuto diventano a favore (nell’ultima risoluzione sull’Ucraina), appiccando politicamente incendi che forse si spengono e forse no, di certo lasciano cenere e macerie.
Del cinquantenne bonario autoproclamatosi «avvocato del popolo italiano», di quel «Giuseppi» che evocava tenerezza anche se evocato da una personalità come Donald Trump, del compagnone che davanti a una birra raccontava l’Italia a un’Angela Merkel che lo ascoltava assorta, del presidente del Consiglio che annunciava i lockdown accarezzando con le parole i titolari dei «negozi di prossimità» e promettendo loro «i ristori che arriveranno», di tutto questo resta adesso poco o nulla. Avvicinatosi più per vocazione umana che per professione di fede politica a uno stile che faceva gridare all’avvento del messia di una nuova Democrazia cristiana — con ex dc devoti come Gianfranco Rotondi e Bruno Tabacci che sognavano di costruire attorno a lui uno Scudo crociato nuovo di zecca — Conte è diventato una specie di Mr.Hyde di se stesso, con movenze stilistiche che ricordano tanto il Matteo Salvini che si avvicinava pericolosamente al Papeeete e poco, pochissimo, il morigerato uomo di fede che di fronte alle insistenze di Bruno Vespa («Vogliamo vederla questa immagine?», «Andiamo proprio sul personale, allora?») tirava fuori dal taschino della giacca l’immaginetta di Padre Pio, perché «io ho una via personale religiosa e quindi prego anche, e penso spesso a Padre Pio».
Quella strana sintesi tra l’ultra-cristiano dovere di porgere l’altra guancia e l’ultra-laico approccio da chi il pugno di ferro lo riveste saggiamente con un guanto di velluto, un mix che era stato la sua fortuna, cede terreno al rancore che l’ex presidente del Consiglio ha riversato pubblicamente su Draghi, a quello «sconcerto per le parole che ha rivolto contro di me» nella vicenda della presunta richiesta del presidente del Consiglio a Grillo di togliergli i galloni di capo politico del M5S. La circostanza è stata smentita da Palazzo Chigi e da Beppe Grillo, confermata dal sociologo Domenico De Masi al Fatto quotidiano e da Conte stesso ma, vera o falsa che sia la storia, il punto è forse un altro: l’uomo che a ragione o a torto era stato baciato da un gradimento che evocava cose grandi ed epocali come «pandemia» ma anche «vaccini», «sacrifici» ma anche «ristori», «chiusure» ma anche «riaperture di massa», adesso rischia di diventare una maschera che rimanda a questioni piccole come possono esserlo terzi mandati di parlamentari e consiglieri regionali, deroghe a statuti, cavilli, regolamenti, governi sostenuti a metà, appoggi esterni.
È l’universale che si fa particolare, il senso di una storia grande che si fa cronaca piccolissima, in fondo l’opposto del Conte che sceglieva la piccola storia dei migranti tenuti a Malta nel gennaio del 2019 e che rispondeva a Salvini, suo ministro dell’Interno, con una grande lezione di umanità: «Se lui tiene i porti chiusi, vorrà dire che andrò a prenderli io con l’aereo».
Non tornerà a essere «il punto di riferimento dei progressisti», com’era stato salutato anche nel Pd, e forse rischia una fine politica da Totò Schillaci nei Mondiali di calcio del ’90, eroe indiscusso di una grande partita finita male. Nel suo presente c’è lo strano destino del personaggio tormentato della vecchia canzone di Tonino Carotone, «vita intensa / felicità a momenti /e futuro incerto». Domani chissà.
Nessun commento:
Posta un commento