“Credo che Draghi abbia priorità diverse dalla Rai, non può combattere su tutti i fronti. E i partiti non lo mettono neanche nelle condizioni ideali, lui le sue energie le deve concentrare”, commenta Pier Luigi Celli, che della Rai è stato direttore generale dal 1998 al 2001 A Viale Mazzini non è possibile spostare le pareti e modificare gli interni come vorrebbe l’originaria struttura “modulare” perché si è scoperto che c’è l’amianto. Nessuno dunque può abolire una stanza, così come nessuno può cambiare o spostare una trasmissione, un conduttore o un direttore
Il governo che doveva raddrizzare l’italia aveva nominato un amministratore delegato per raddrizzare anche Viale Mazzini, ma l’opera di Carlo Fuortes nella tv di stato è la parodia dello spirito del tempo. Partito con le fanfare finisce col “petomane”
Appena arrivato lo battezzarono subito “Napoleone”, mentre adesso, a distanza di un anno, Carlo Fuortes lo chiamano già “Waterloo”. E così come Bonaparte era la tragedia di un uomo solo, questa dell’amministratore delegato della Rai, nominato da Mario Draghi a luglio del 2021, sembra invece la farsa dello spirito del tempo. Fuortes, sessantadue anni, il sovrintendente che aveva spezzato le reni ai violinisti ipersindacalizzati del Teatro dell’opera di Roma, doveva aggiustare ogni cosa all’ombra del cavallo morente di Viale Mazzini. Proprio come Draghi doveva raddrizzare l’italia intera.
Ma la Rai sembra piuttosto diventata una grossa macchia d’unto, la patacca di sugo che non va via dal blazer candido del presidente del Consiglio. Addirittura raccontano che Draghi stesso, ad aprile, nei giorni in cui il Covid lo aveva costretto a casa, a Città della Pieve, facendo zapping sui canali Rai se ne stesse con i capelli ritti. Inorridito per l’informazione “con poca intelligenza” o per i talkshow trasformati in una corsia di sbandati e filoputiniani. Se n’è accorto forse tardi, il premier. E si è accorto solo dell’aspetto forse più superficiale del guasto Rai. L’epifenomeno, per così dire.
In un’azienda che, come vedremo, appare profondamente sfasciata: il nuovo piano industriale acefalo, gli ascolti crollati in un anno, le spese per il lavoro dipendente che superano il miliardo di euro, la conflittualità interna oltre il livello di guardia, l’incapacità di cogliere la sfida della modernizzazione, le troppe raccomandazioni politiche, i tagli imposti sul prodotto e non sui costi fissi, lo strapotere di sindacati che continuano a far assumere in un corpaccione da tredicimila dipendenti, gli agenti delle star e le case di produzione che esercitano talvolta un ruolo quasi ricattatorio. “Credo che Draghi abbia priorità diverse dalla Rai, non può combattere su tutti i fronti. E i partiti non lo mettono neanche nelle condizioni ideali, lui le sue energie le deve concentrare”, commenta Pier Luigi Celli, che della Rai è stato il direttore generale dal 1998 al 2001. Certo è che lo staff di Palazzo Chigi, gli stessi che Fuortes lo avevano scelto e suggerito a Draghi, ora tratta l’amministratore con garbata freddezza. Nominato, pare, su suggerimento della filiera della sinistra romana – le solite iene dicono “basta guardare chi andava alle prime dell’opera di Roma”: Veltroni, Gentiloni, Franceschini, Bettini, Amato… – secondo la leggenda Carlo Fuortes doveva essere il presidente della Rai, non l’amministratore delegato. E Marinella Soldi, l’attuale presidente, una vita da manager televisivo da Mtv a Discovery, doveva invece essere l’amministratore delegato.
Per sapienza o incongruità del destino è successo che quella che s’intendeva di televisione ha preso un ruolo formale e non operativo (e lo sta interpretando con coerenza: col mutismo), mentre quello che di televisione non ne capiva niente è diventato il capo operativo della tv di stato. Adesso, come spesso succede, era già accaduto ad Antonio Campo Dall’orto con Matteo Renzi che rapidamente si disinnamorò di lui, ecco che Palazzo Chigi quasi disconosce il suo manager. Prima lo nominano, e poi lo scaricano. Ma la patacca resta.
Nella prima settimana di giugno, probabilmente dal 6, entrerà a regime il nuovo piano industriale. Addio alle reti, di fatto, per come gli italiani le hanno conosciute dal Dopoguerra a oggi. Resteranno Raiuno, Raidue e Raitre, sì, certo, ma come svuotate, saranno dei contenitori, delle scatole riempite dalle “direzioni di genere”, per cui tutto funzionerà per fasce orarie, indipendentemente dalla rete che trasmette. E anche la lottizzazione, dunque, antica ginnastica politica, andrà al pascolo per fasce d’orario e non più per canale. Novità insomma. E vecchie abitudini. Ma questa “rivoluzione”, sbandierata, reclamizzata e raccontata dai giornali, in azienda, ma anche nel mega indotto Rai, viene sostanzialmente accolta tra sbadigli e preoccupazioni, retropensieri e malignità. Persino tra quelli che questo nuovo modo di lavorare lo incarneranno, insomma i manager e gli uomini come si dice “di prodotto”.
Dicono infatti questo, all’incirca, quasi tutti: “Non c’è un pensiero dietro la nuova organizzazione. I programmi delle fasce orarie non sono collegati tra loro, non è stata individuata una figura apicale che abbia una visione tecnica e complessiva dei contenuti”. In pratica, dicono, manca un superdirettore che abbia in testa chiare le linee di tutte e tre le reti Rai e che dunque sappia coordinarle affinché il flusso di ogni singola rete mantenga poi una sua coerenza logica, di palinsesto, e anche una sua identità. Il problema, spiegano, è che il pubblico non va spiazzato. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. Ebbene, questo ruolo di superdirezione, raccontano, l’ha avocato a sé Fuortes, l’amministratore delegato, che però non si è mai occupato di televisione in vita sua. Diceva Ettore Bernabei, il fondatore della Rai, che “gli uomini bisogna saperli scegliere. E per fare la televisione bisogna sceglierli tra quelli che la sappiano pensare”. Chissà.
Difficile districarsi tra le mille malizie, e i veleni aziendali, specie di fronte a questioni così tecniche, specie in un luogo, Viale Mazzini, in cui si scontrano troppi interessi di lobby e di corrente, di tacco e di rimbalzo. La nuova organizzazione è disordinata, acefala, sciocca come dicono loro? Può darsi. Ma non c’è nemmeno troppo da fidarsi degli umori, e delle acidità, che emergono dai corridoi d’un posto dove tutti sono in guerra con tutti, anche solo per uno strapuntino della mattina. Un posto dove ogni cosa si risolve in un conflitto sordo, insistente, fatto di esposti e contro esposti, ricorsi, affronti e maldicenze, lì dove tutto alla fine si scioglie in politica (ovvero nella telefonata al politico) con i suoi interessi di sottobottega televisiva e di marchetta in onda media. Ma lo vedremo meglio dopo.
La Rai è infatti sempre di più un’azienda che sembra uscita da un racconto satirico di Achille Campanile, il raffinatissimo umorista, o da una sceneggiatura di Dino Risi. Commedia all’italiana. E non solo per l’episodio del dipendente che s’era rubato i dipinti di valore a Viale Mazzini e li aveva sostituiti con delle croste. O per il direttore del Tg2 che qualche settimana fa, sommerso dalle critiche perché aveva parlato dal palco della convention milanese di Fratelli d’italia, a un certo punto si trae d’impaccio così: denunciando di essere stato minacciato – niente meno – perché in redazione, in ascensore, qualcuno aveva disegnato una stella a cinque punte. Disegnino che però stava lì da almeno tre anni. Al punto che quella stella, come si sono poi accorti in tanti, compariva su Instagram alle spalle di tutti i selfie che le conduttrici del Tg2 si sparavano in posa dal 2019 davanti allo specchio dell’ascensore incriminato. Una cosa così, probabilmente, non l’avrebbe immaginata nemmeno Rodolfo Sonego, lo sceneggiatore preferito da Alberto Sordi.
Ma per avere un’idea di come girano le cose alla Rai, basterebbe forse la piccola storia del cosiddetto “petomane” e della giornalista del Tg1 che fa causa ai suoi superiori perché non vuole andare in stanza con lui. Vicenda che negli ultimi giorni tanto ha intrattenuto le cronache dei quotidiani italiani, e che al di là del trivio solo apparente sembra invece proprio un apologo di cosa sia questo ministero cariato in cui tutti fanno causa a tutti, dal direttore all’ultimo dei programmisti. Forse l’unico posto di lavoro al mondo in cui si ottengono i gradi o si mantiene una direzione denunciando la propria azienda in tribunale. Ragione per la quale ogni anno la Rai accantona a bilancio cifre spaventose a sei zeri per le spese legali. Nel 2017 persino alcuni membri del Consiglio di amministrazione, che non erano retribuiti in quanto pensionati, fecero causa all’azienda. Ci sono direttori e manager, tuttora in carica, in contenzioso aperto con la Rai. E le denunce, ovviamente, rientrano solo quando il denunciante ottiene un nuovo incarico: va bene anche a Raicom, nella più inutile periferia dell’impero.
Decine, centinaia di cause, stratificazioni di cause, mobbing, stalking, demansionamento, tanto lavoro per il pool di avvocati interno, sì, ma anche un lavoro a tempo pieno per due o tre grossissimi studi di Roma e di Milano. Quello che ancora i giornali non hanno scoperto è che anche il collega petomane, a sua volta, aveva aperto un contenzioso interno, proprio come la collega conduttrice del Tg1 che lo accusa, rivolgendosi più volte al comitato di redazione, nonché ad alcuni politici. Lo raccontava persino a uno di questi “protettori” esterni all’azienda, un avvocato ex parlamentare di Forza Italia poi finito indagato per certe amicizie ’ndranghetiste, in una lunghissima intercettazione telefonica di qualche anno fa, una conversazione che potrebbe un giorno essere studiata in un eventuale corso di laurea in “antropologia Rai”. Anche lui, il petomane, si sentiva discriminato. “Per quello spazio Paolo Rossini ha raccomandato una di sinistra, una comunista, che mi ha fregato quello spazio del mattino e quindi…”. Perché lì quasi tutto viene regolato attraverso meccanismi tra il bizantino e il medievale, non solo nei telegiornali che sono per loro natura sotto i riflettori. Ma pure negli anfratti più in ombra, dentro a quegli stanzoni da clinica privata, con gli arredi da vecchia Iri degli anni Settanta, lì dove la misura del potere è data dal numero di piante che si ha nella stanza, come nei film di Fantozzi. Un posto, che poi sarebbe in teoria un broadcaster televisivo di primissima grandezza, dove è impossibile aprire le finestre perché il costruttore di Viale Mazzini non ha previsto la boccata d’aria. E dove non è più possibile spostare le pareti e modificare gli interni come vorrebbe l’originaria struttura “modulare” perché si è scoperto che tra un piano e l’altro c’è l’amianto.
Nessuno dunque può abolire una stanza o spostare una parete, così come nessuno può cambiare o spostare una trasmissione un conduttore o un direttore – se ci sono resistenze. E’ successo l’anno scorso con “Un posto al sole”, com’è assai noto, la fiction che si voleva spostare dalla sera al tardo pomeriggio. Non è stato possibile. Nemmeno a cannonate. Perché lo spostamento di orario per la fiction avrebbe forse comportato un calo della raccolta pubblicitaria. E di conseguenza anche un calo nel budget, circa 13 milioni di euro l’anno garantiti, che la Rai dà alla multinazionale privata che “Un posto al sole” lo produce.
Basta infatti che una casa di produzione esterna, una delle sette sorelle della lobby televisiva internazionale, faccia la “telefonatina”, o basta che un conduttore chiami in causa i partiti e si faccia proteggere da Salvini, da Conte, da Andrea Orlando o da Giorgia Meloni, basta questo perché in Rai salti ogni principio di autorità editoriale.
Se chiami fuori, poi puoi fare quello che ti pare. Non c’è amministratore delegato, direttore di rete o di genere che tenga. E’ esattamente quello che è successo, qualche settimana fa, con Bianca Berlinguer e il suo programma di cosiddetto “approfondimento”. Con effetti forse sugli ascolti, sulla raccolta pubblicitaria, certamente sul prodotto e sul servizio.
Esiste una linea editoriale? Esiste un principio di autorità editoriale? I dati di ascolto, nel confronto tra il 2021 e il 2022, sono impietosi. Raiuno è l’unica rete che ha segno positivo, e infatti adesso la chiamano “la cassaforte Rai”.
Amazon, Netflix, Discovery. Mentre il mondo evolve e gli ascolti si spostano sulla tv via internet, mentre persino Mediaset che non è precisamente il riflesso della modernità si attrezza, mentre tutto dovrebbe spingere all’innovazione e alla fantasia, ecco che invece a Viale Mazzini si comportano come nulla fosse. Anzi.
Tutti spolpano un pezzo della carcassa. Vai a capirlo. Ma Raidue, Raitre e soprattutto le reti cosiddette “specializzate”, ovvero Rai4, Rai5, Rai storia, Rai premium e le altre, sono tutte in perdita. La testa della Rai dov’è? E’ ovvio che in un posto così, persino gli uscieri siano in conflitto con l’azienda, che tutti rivendichino qualcosa, rispondano a qualcuno che non sta dentro alla catena di comando ufficiale, in un eccesso di politicismo, sindacalismo e guarentige andate a male al punto che i per fortuna non pochi che mantengono dignità e orgoglio d’appartenere alla prima industria culturale d’italia, tra Viale Mazzini e Saxa Rubra, sembrano i soldati bombardati e asserragliati nell’accieria Azovstal di Mariupol.
Secondo i maggiori esperti del settore radiotelevisivo, le tv generaliste potrebbero non sopravvivere alla rivoluzione digitale dello streaming e scomparire in un arco di tempo anche piuttosto rapido, dieci o forse quindici anni. Persino meno. Dovunque si cambia. Ci si trasforma. Ma non a Viale Mazzini. Negli ultimi tredici anni i ricavi della Rai si sono ridotti di oltre 702 milioni di euro (dal 2008 al 2020). Meno entrate pubblicitarie, meno entrate commerciali, il taglio del canone, anche, certo, ma soprattutto un sistema interno che non risponde più a processi industriali ed editoriali che sono profondamente cambiati.
Netflix, Amazon Prime, Disney channel e Discovery che conquistano ascolti, i social network che avanzano concorrenzialmente nella raccolta pubblicitaria, il digitale terrestre che offre una quantità enorme di canali gratuiti…
E la Rai così diventa un problema industriale. Un dinosauro. Con i suoi circa tredicimila dipendenti, quasi trecento montatori, registi, tecnici, assistenti di studio, telecineoperatori e quasi mille e settecento giornalisti. Per numero i giornalisti Rai sono all’incirca la somma di tutte le redazioni di tutti i quindici principali quotidiani italiani. In sostanza sono come il Corriere della Sera, più Repubblica, più il Messaggero, più la Stampa, più il Sole 24 Ore, più il Mattino, più il Giornale, Libero, il Tempo, il Foglio, la Verità, il Fatto, il Riformista e persino il Dubbio, la Notizia e la Ragione: millesettecento persone… ma non sono messi nelle condizioni di fare un sito internet d’informazione lontanamente paragonabile non a quello della Bbc ma nemmeno a quello di giornalettismo.it. Un modello economico fallimentare, forse paragonabile alla Cassa del Mezzogiorno. Per giunta all’interno di un settore in grande difficoltà in tutto il mondo. La prima e ultima grande fusione tra testate, dentro la Rai, fu circa vent’anni fa, tra il Tg3 e i Tg regionali. Ma fallì. Dieci anni dopo, a febbraio del 2015, un amministratore delegato, Luigi Gubitosi, tentò di nuovo di fondere i telegiornali. Questa volta tutti: l’uno, il due, il tre e Rainews. Tentò di razionalizzare. Almeno l’informazione. Sapeva che i conti non tornano. Fu cacciato a pedate.
Quale azienda editoriale oggi ha millesettecento giornalisti impiegati e otto testate? Gubitosi lo mandarono via perché aveva toccato il corebusiness della politica. I telegiornali infatti servono perché ogni micro-potere parlamentare ne deve avere uno, e poi al suo interno deve avere anche la sua quota di vicedirettori, capiredattori e capiservizio. E ci voglio poi anche gli spazi dove comparire, parlare e straparlare. Ogni partito impone le proprie leggi di accaparramento, i propri uomini di punta, di rincalzo, di spinta, di frenata, di compromesso, di tacco o di gomito, i reggicalze e le mezze calze. Ed è probabilmente questa la ragione per la quale Carlo Fuortes, l’attuale amministratore delegato, non c’ha nemmeno provato a cambiare le cose.
Preceduto com’era dalla fama di uomo d’acciaio, che non si piega, uno che non si faceva mica spaventare dai sindacati, si pensava che fosse proprio quello giusto. Uno che di mestiere adopera la penna sul bilancio come il chirurgo adopera il bisturi nell’estrazione dei calcoli renali o al fegato: ogni colpo di penna una trauma, un dolore. Tutta una mitologia, per la verità, basata all’incirca su quattro violini, un oboe e due timpani ipersindacalizzati e sconfitti qualche anno prima all’opera di Roma. Forse ben poca cosa, mica quei volponi dell’usigrai, gente di pelo e contropelo. Vero potere profondo e immortale (e chissà, anche un po’ guasto) della grande e vecchia televisione pubblica.
L’anno scorso, per esempio, Fuortes ha siglato il primo di una serie di accordi più o meno taciti col sindacato: i tg non si toccano. Ovvio. In Rai non si tocca nulla. Dopo alcune proteste, l’estate scorsa, l’amministratore delegato aveva persino accettato di mandare tutti i dodici vaticanisti della Rai a seguire il viaggio del Papa in Iraq. Dodici. Quasi più numerosi del seguito che il Papa si portava dietro da Roma. Quale azienda può permettersi una cosa del genere? Quanto può durare prima che salti in aria mandando per strada i suoi tredicimila dipendenti che sono di più di quelli che la Fiat ha in Italia?
Mentre il mondo evolve, mentre gli ascolti calano e si spostano inesorabilmente sulla tv via internet, mentre persino Mediaset che non è precisamente il riflesso della modernità si attrezza, mentre tutto dovrebbe spingere una classe dirigente consapevole al rinnovamento e alla fantasia, alla ricerca del talento e dell’innovazione, ecco che invece a Viale Mazzini si comportano come nulla fosse. Anzi. Tutti spolpano un pezzo della carcassa, finché c’è qualcosa ancora da spolpare. I partiti, i manager, i conduttori, i funzionari, i sindacati, i fornitori, gli agenti delle star che comandano più dei direttori di rete e le società di produzione private, le multinazionali, che campano sull’inefficienza produttiva di un’azienda che non produce più quasi nulla.
A marzo del 2015, qualche anno prima di morire, Bernabei, l’inventore della Rai, mi spiegò in un’intervista cos’era, secondo lui, il servizio pubblico. Perché esiste, a che serve. O meglio: a cosa dovrebbe servire. “La Bbc ha uno scopo”, diceva allora Bernabei. “Difendere gli interessi delle isole della Gran Bretagna. In Italia ci vuole qualcosa che dia un amalgama, un senso di appartenenza a tutta la nostra popolazione: quella operosa che cerca di uscire dalla crisi, quella litigiosa, divisa e per certi versi presuntuosa. Quando si è senza identità, ci si fa spolpare dagli stranieri, come in Italia è avvenuto negli ultimi vent’anni, con le privatizzazioni, le svendite di stato, le paure, lo spread… Gli stranieri non stanno fermi e non si danno le martellate sulle ginocchia come facciamo noi, capiscono che la nostra debolezza è principalmente una debolezza mentale, un’imbecillità identitaria, in senso letterale. Per questo in un paese che vuole essere sovrano in casa propria, ci vuole anche un servizio pubblico televisivo che funzioni”.
Ma quella di Bernabei era la Rai della Prima Repubblica, un altro secolo. In Rai venivano assunti Enzo Biagi, Arrigo Levi, Umberto Eco, Raffaele La Capria, Andrea Camilleri, il sovrintendente della Scala, il maestro Siciliani, e collaboravano i più eminenti registi di allora: Rossellini, Fellini, Zeffirelli… Oggi i film di Paolo Sorrentino li produce e li manda in onda Netflix. C’è da pensare che l’impoverimento culturale e tecnico della Rai, la perdita di conoscenze e saperi che pure esistevano ed esistono dentro le sue mura, sia voluto. E’ come se la Rai debba essere, scientificamente, messa nelle condizioni di non funzionare perché così è più utile. A chi? Fate voi. Non certo all’italia. Come dice spesso Giovanni Minoli, usando l’esempio della “Prova del cuoco”: “Una volta ho fatto una ricerca su quanti programmi aveva inventato la Rai, in passato, basati sull’idea di far gareggiare tra loro dei cuochi davanti ai fornelli. Erano cinque. Cinque! Questi format li potevi vendere tu all’estero invece di comprarli”. Le potentissime società di produzione vivono anche di relazioni e di contatti con il potere politico, con i partiti, cioè con gli editori della Rai, l’azienda che poi compra i prodotti da queste multinazionali a suon di centinaia di milioni. Chissà. Troppi interessi. Troppo forti. E il problema non è certo l’apertura al mercato esterno audivisivo, all’indotto che dà lavoro a migliaia di persone, ma è il sistema non meritocratico e disfunzionale con il quale probabilmente queste produzioni vengono affidate.
L’intrattenimento. La fiction. Il cinema. Sono questi i soldi veri che girano in azienda, mica i talk-show o i telegiornali. Quello è l’orrido epifenomeno, semmai, di cui si è accorto – tardi – Mario Draghi.
Si arriva così a Carlo Fuortes, passato da “Napoleone” a “Waterloo”, appunto, che non è certo la causa dei guasti. Ma nemmeno la soluzione, a quanto pare. Anzi. Dicono che Fuortes stia alla Rai come Virginia Raggi stava alla città di Roma: la mazzata finale. Cattiverie, sì. Esagerazioni, forse. Ma con un fondo di verità. Perché Draghi, celebrato come la vivente fatalità dell’italico destino, ha messo alla guida dell’azienda caracollante un amministratore delegato che anziché porre le basi del salvataggio, anziché intercettare il cambiamento, o tentare di intercettarlo, sembra comportarsi come i suoi predecessori di trenta e quarant’anni fa. Forse peggio. C’è infatti per lui un’aggravante: lui aveva la forza di Draghi alle spalle. Ma niente. Sembra di essere tornati agli anni Ottanta. Solo che non sono più gli anni Ottanta purtroppo.
Così, addirittura, il manager arrivato con la fama di inflessibile avversario dei sindacati, per dire, ha firmato una serie di accordi (detti in gergo “capitolazione totale”) con il sindacato interno. Su tutta la linea. Di recente Fuortes ha assunto altri ventiquattro giornalisti, uno per sede regionale, certamente essenziali nel già scarno organico di 1.700 persone, per occuparsi di internet.
Poi, pochi giorni fa, dopo aver condotto una battaglia assai lirica, per non dire tenorile (si vede che viene dal teatro dell’opera) “per la riduzione dei costi”, dopo aver sospeso la messa in onda notturna dei telegiornali regionali per risparmiare alcune decine di migliaia di euro è stato fronteggiato dall’usigrai. Com’è andata a finire? L’amministratore delegato ha confermato la cancellazione dei telegiornali notturni. Quindi ha eliminato un servizio al pubblico, ma ha contemporaneamente ripristinato le indennità notturne per i giornalisti delle testate regionali. Che non andranno in onda, ma saranno pagati comunque per restare fino a tardi. Per la verità non tantissimo, si tratta di circa 300 euro in più: ma che senso ha? Non si potevano ripristinare anche i tg a questo punto? Chissà.
S’intende certamente di bilanci, Fuortes, e quello che presenterà tra qualche mese, dicono tutti, potrebbe essere in pareggio: ha tagliato. Non i costi operativi, a quanto pare, certamente non il costo del lavoro che fa della Rai una specie di gigantesco ente di assistenza e protezione sociale che paga più di un miliardo di euro l’anno in stipendi. Ma è intervenuto, come sui tg regionali, con tanti piccoli e grossi tagli al prodotto. Per esempio da qualche giorno ha modificato al ribasso i budget di alcune direzioni di genere: meno 5 milioni di euro al daytime e meno 4 milioni al primetime. Il che significa che i direttori avevano preparato i palinsesti di autunno, che vanno presentati a fine giugno, pensando di avere a disposizione una cifra, e adesso devono ricominciare il lavoro da capo con cifre più basse. Ma è solo un esempio.
I tagli sono necessari, vitali, lo sanno tutti, il punto è capire dove farli. E avere un’idea per rilanciare il carrozzone periclitante con talento, fantasia e competenza. L’azienda deve diventare più efficiente e libera, non morire di tagli, liti e storielle da commedia all’italiana. Tutte cose che, per la verità, ed è qui che si consuma la parabola di Fuortes, l’amministratore delegato aveva annunciato.
A settembre dell’anno scorso, al telefono, per dire, raccontava anche a me che “a breve faremo le grandi trasformazioni che non sono state fatte da lungo tempo”. Si riferiva alla rivoluzione della newsroom dei telegiornali, al loro tanto atteso accorpamento. Alla riorganizzazione del lavoro interno. Alla razionalizzazione troppo ostacolata, e rimandata nei secoli. Cose difficilissime. Che Fuortes però accompagnava a suggestioni formidabili, come l’idea, che qualcuno gli aveva suggerito, di spostare una parte degli uffici Rai da Viale Mazzini alla antica sede dell’eiar, in Via Asiago. Dove oggi ha sede la radio Rai.
Un’operazione simbolica e politica insieme, paragonabile, si parva licet, a quella di Luigi XIV che limò le unghie all’aristocrazia ribelle e inaffidabile deportandola nei fasti di Versailles. Smontare le incrostazioni a cominciare da un trasloco fisico. Tutto estremamente ambizioso, e complicato. Eppure promettente. Al punto che, quando gli si prospettava la difficoltà di un’opera di risanamento e di recupero sulla quale, per esempio, s’era già infranta l’iniziativa di diversi suoi predecessori, da Gubitosi a Campo Dall’orto, Fuortes opponeva un contagioso ed entusiasmante piglio funzionalista. Energico. “Lo so che la politica ha i suoi interessi e che ci sono resistenze”, rispondeva. “E per questo c’è un modo solo per farcela: fare tutto e subito. Il tempo è la variabile fondamentale”. Bisognava approfittare della forza del governo, in quel momento insediato da poco. Ma poi? Poi niente.
Così, a poco a poco, il draghiano della Rai si è avvolto in un autolesionistico sudario di annunci e autosmentite da far perdere l’orientamento. Addirittura, dopo aver solennemente affermato in un’intervista che “la politica non busserà alla mia porta”, neanche il tempo di fare asciugare l’inchiostro su quella pagina ed ecco che Fuortes veniva scoperto a incontrarsi con Matteo Salvini. Battuta fulminante: “E vero che la politica non bussa, è direttamente lui a bussare”. Subito dopo veniva fotografato pure al compleanno di Goffredo Bettini, con Giuseppe Conte. Fino alla storia incredibile, l’ultima, quella dei talk-show, nei giorni delle polemiche sulla propaganda russa in diretta tv, nei giorni in cui veniva sollevato il possibile e confuso inquinamento tra informazione e intrattenimento nei programmi della Rai e non solo. E allora “I talk vanno ripensati”, diceva Fuortes. “Non sono l’ideale per l’approfondimento giornalistico”, aggiungeva. “Stiamo riflettendo su nuove policy”, spiegava.
E quindi lasciava intendere “una rivoluzione” in arrivo, nuove idee, formati, un diverso modo d’intendere e di interpretare i programmi d’approfondimento in prima serata. Che poi, in realtà, è un solo programma. Perché la Rai ha un solo talkshow in prima serata: “Cartabianca”. E dunque? E dunque niente. Quello stesso giorno la notissima conduttrice del programma aveva fatto alcune telefonate. Al Pd, alla Lega, al M5s e a Fratelli d’italia. E anche delle interviste. Quasi tutti i leader di partito a quel punto l’hanno difesa, come se la discussione della linea editoriale non sia prerogativa dell’editore ma una lesione dell’indipendenza giornalistica. O peggio, una censura. Risultato? Tutto resta come prima. E insomma, come il petomane, nel suo piccolo, telefonava all’avvocato calabrese ex parlamentare del centrodestra per farsi aiutare, così Bianca Berlinguer, nel suo grande, dopo la difesa dei politici veniva rassicurata e ricevuta da Fuortes nel bell’ufficio dell’amministratore delegato al settimo piano di Viale Mazzini. E davvero tutto (dis)funziona in questo modo nell’enorme corpo di bestia chiamato Rai.
Deve ancora arrivare il Prometeo che la liberi da se stessa. Nel 2023 ci saranno nuove elezioni politiche, dunque un nuovo governo, poi forse anche un nuovo amministratore delegato della Rai. E allora tutto probabilmente ricomincerà da capo, come nella giostra del luna park: il massimo del movimento con il minimo dello spostamento.
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