domenica 14 gennaio 2024

Fabrizio De André. Un poeta contro l''emarginazione. Intervista di Pietro Acquafredda (da Lo Specchio suppl. La Stampa, 1996, ripresa in Music@, 2009)

 Sei anni di silenzio e di lavoro. Qualche rarissima apparizione in pubblico. Una lunga stagione di isolamento, di creazione e di avventura. Ma ora, sul finire di questo 1996, Fabrizio De André come per un incanto ha rotto gli indugi: prima un disco, Anime salve, tante volte annunciato e tanto sospirato dai suoi fans. Poi anche un libro, Un destino ridicolo, scritto a quattro mani con un amico psicoanalista e scrittore, Alessandro Gennari. E non è finita qui: per il ‘97 è prevista anche la tournée che porterà De André in giro per l’Italia. 

Ma anche se cambia il ritmo della vita, il suo sguardo pacato, il suo modo di soppesare le parole restano invece quelli di sempre. E se gli domandi cosa c’è di speciale, di straordinario nel suo mondo, ti risponde così: 

Al di fuori dei miei sogni, del mio contatto con qualcosa che altri hanno voluto definire ‘assoluto’, vivo normalmente come credo la maggior parte dei miei simili. Delle mie canzoni non mi ritengo neppure totalmente responsabile: vengono con le idee, forse sono idee, forse qualche altra cosa che non so definire.

 Ma come nasce, come si diventa cantautore? Come nacque De André cantautore? 

La mia famiglia, dal lato paterno, è di origine francese: provenzale per la precisione. Mio padre, durante l’intero arco della vita, non perse mai i contatti con i luoghi d’origine. Ritornando dai suoi viaggi portava a me e a mio fratello Mauro qualche regalo, in particolare dischi di musica popolare. Fra questi, a 14 anni, scoprii le canzoni di Brassens. A scuola, al contrario di mio fratello, non primeggiavo. Così in famiglia avvertivo un clima di competizione, che mi metteva ansia. 

E la sua vocazione musicale scaturisce da quest’ansia? 

In un certo senso sì. Lo specchio in cui riflettevo le mie angosce era rappresentato da mia madre. La quale nel 1954 pensò di regalarmi una chitarra e trovò anche un maestro colombiano che mi insegnasse a suonarla. Posso dire che i doni di mia madre e di mio padre si sommarono miracolosamente per indirizzarmi a quello che gli altri riconoscono come mio mestiere. 

La sua scelta di diventare cantante venne accettata senza problemi in famiglia? 

All’uscita del mio primo disco mia madre si dimostrò subito entusiasta. Mio padre lo fu solo qualche anno dopo, quando, stando già fuori casa, avevo dimostrato di sopravvivere più che dignitosamente con un’attività che ai tempi veniva considerata più un espediente che un vero lavoro. 

Lei parla di suo padre con una sorta di venerazione. Quanto è stato importante per lei questo rapporto? 

È una persona di cui parlo molto volentieri. Si laureò in Lettere a Torino studiando di notte e lavorando di giorno per pagarsi gli studi. Dove riuscisse a trovare il tempo per dormire non me lo ha mai raccontato. Tra i frammenti dei tanti ricordi che mi confidò quando negli Anni Settanta diventammo intimi amici, ce n’è uno che ricordo nitidamente. Quando le leggi razziali vennero estese anche in Italia, mio padre ricevette la visita di due gentiluomini che lo pregavano di stilare l’elenco degli studenti di origine ebraica che frequentavano la sua scuola a Sampierdarena. Mio padre li rassicurò. Poi il mattino seguente fece il giro delle classi raccomandando a tutti i ragazzi che avevano ascendenti ebrei di rifugiarsi da qualche parente in campagna fino alla fine della guerra. Un paio di giorni dopo i due compari si fecero di nuovo vivi, intimandogli di seguirli, perché il questore desiderava parlargli. Lui li tranquillizzò. Chiese solo di poter avvertire la segretaria. Naturalmente li ingannò e uscì da una porta secondaria. E i fascisti devono ancora trovarlo adesso.... Poi, dopo la guerra, entrò in politica... Sì, divenne vicesindaco di Genova nelle file del partito repubblicano. I comunisti tappezzarono la città con un fotomontaggio in cui appariva vestito da prete. Per lui fu uno choc, ma confesso che io e mio fratello ci facemmo - naturalmente di nascosto - un sacco di risate. Poi si schierò con il presidenzialismo di Pacciardi e venne espulso dal partito. La motivazione suona ancora al mio orecchio come la nota di un corno stonato: ‘indegnità politica’. 

A proposito, dal momento che hanno riabilitato Pacciardi, perché non fanno lo stesso per mio padre? Torniamo a lei. Che cosa resta del contestatore di un tempo?

 La politica in questo momento e in questo Occidente che ha scelto il capitalismo non solo come sistema economico ma anche come teorema filosofico e morale, non esiste più. Chi guida il Paese, chi muove le leve dell’informazione è il grande capitale. I numeri sono diventati più importanti degli uomini. Chi paga le conseguenze più dure sono le minoranze politiche, religiose, culturali o anche solo comportamentali: proprio quelle da cui si potrebbero attingere nuove idee. Questo influisce anche sulla musica, dove si scorge una certa stanchezza e una povertà di ispirazione... La poesia e la canzone non hanno mai goduto di tangibili privilegi. Non è quindi una genetica mancanza di ispirazione quanto la scarsa considerazione da parte dei contemporanei ad ingenerare in molti artisti una profonda sfiducia nel proprio lavoro. Gli uomini sono tutti potenziali artisti, ma devono fare i conti con esigenze di vita che con il tempo si sono moltiplicate, trasformando semplici orpelli in insopprimibili necessità. Per gli artisti troppo ricchi vale il discorso contrario. E, nel nostro tempo, cantanti e autori ne sono un innegabile esempio: avendo troppo coltivato il gusto per il superfluo e dato eccessivo riscontro alla parte più rozza della loro esistenza hanno perduto, insieme al rispetto per la propria arte, il gusto e la capacità di esercitarla. 

Dopo Anime salve l’attende una faticosa e lunga tournée. Con che spirito l’affronterà? 

Cercherò di impegnarmi al massimo per difendere il rispetto che devo al pubblico e che intendo mantenere anche nei confronti di me stesso, anche se le esibizioni non sono mai state al vertice dei miei desideri. Sarò confortato, oltreché dalla presenza di ottimi musicisti con cui ho una lunga consuetudine di lavoro e di amicizia, dall’intervento di entrambi i miei figli: Cristiano con il compito tutt’altro che facile di sostituire un grande polistrumentista come Mauro Pagani e Luvi, mia figlia, come corista. 

Sulla questione della contaminazione dei generi, specie fra il ‘classico’ ed il ‘leggero’ o ‘popolare, come la pensa? 

I primi musicisti che contaminarono le proprie opere con spunti melodici ed armonici di più modeste ed in certi casi anonime origini, furono proprio quelli che usiamo chiamare i ‘classici’: da Mozart a Brahms, da Chopin a Ciaikovskij e Bartok che sulla musica popolare ungherese scrisse addirittura dei trattati. Mi sembra quindi logico che la musica di strada, la canzone, il canto popolare si lascino ispirare da qualche sinfonia, sonata od oratorio; mi pare bello ed anche giusto, non fosse altro per riappropriarsi di antichi e recenti saccheggi da parte della musica colta. Del resto penso che la musica del futuro non potrà diventare tale se non attraverso commistioni e contaminazioni di ogni suo genere. 

Ha qualche preferenze, come tutti, in fatto di musica? Ha, ad esempio, una ‘musica per la mente’ ed una ‘musica per il cuore’? 

Nella buona musica il cuore e la mente non hanno una precisa linea di confine, né in chi la compone ma neppure in chi l’ascolta, lasciandosi trasportare da una mera contemplazione acustica, senza indagarne i presupposti logici e le minime astuzie dovute al mestiere degli autori. Se devo proprio fare una cernita stretta, che per altro si basa esclusivamente sul mio gusto personale, confesso che la mia predilezione va al Concerto in re maggiore per violino ed orchestra di Paganini, al Wagner della Morte di Sigfrido, al Requiem per Django Rainard di Lenny Tristano, naturalmente a Yesterday dei Beatles, e a Lay Lady Lay di Bob Dylan… Ma anche - stavo per dimenticarlo - all’intera colonna sonora di Prokofiev per l’Alexander Nevsky di Ejsenstein”. 

La buona musica può trovare nel mercato e nelle sue leggi un nemico da combattere?

 Gli autori si meravigliano della ‘strategia dello scorpione’ con cui i discografici stanno distruggendo il mercato e se stessi. Si meravigliano e nulla possono al di fuori di indignate quanto generiche ed inutili proteste”. 

                                           *****

                De André musicista. Un altro ‘caso Scelsi’ ? 

Chi ha eletto De André ‘voce’ del secolo si è fatto certamente convincere dalla ragione che egli meglio di tanti altri, è stato interprete di quella ‘fatica di vivere’, che ha contraddistinto il secolo appena trascorso. Dar voce agli emarginati è stato per De André l’impegno di una vita, al quale non ha mai rinunciato anche quando all’arma della pubblica protesta ha preferito il silenzio, la fuga dal mondo e dalla politica, nella quale ormai non si riconosceva più per rintanarsi nella ‘sua’ Sardegna, in quella campagna dove aveva deciso di stabilirsi, nonostante la ferita ancora sanguinante del rapimento, e dove contava di ritirarsi definitivamente, se non fosse sopraggiunta la morte improvvisa, appena possibile, perché io – diceva convinto - “non esplodo dall’entusiasmo al pensiero di invecchiare in scena. Insieme a Dori abbiamo scelto la campagna e l’abbiamo scelta in Sardegna per varie ragioni, alcune delle quali forse anche di origine misteriosa; fra di esse comunque riconosco l’incanto dei paesaggi, la solidità etica degli abitanti e l’ipotesi allora formulata di cercarci un’attività di riserva per i tempi in cui non ci saremmo più sentiti idonei ad avvitare canzoni sul palcoscenico. Dori, da parte sua, ha già smesso l’attività d’interprete da parecchi anni, salvo le sporadiche e a parer mio splendide ricomparse nella mia ultima tournée e nel mio ultimo lavoro discografico”.

 Non che il rifugio nella campagna dell’isola lo guarisse da tutti i malanni; e allora De André ricorreva, come tanti di noi: “in casi di estrema tensione provocata dall’imminenza di un futuro incerto e da ben più disperanti tragedie, come la scomparsa di persone care, a qualche tranquillante per addomesticare l’angoscia”. Quell’angoscia gli veniva proprio dall’essere egli divenuto l’interprete più autentico del disagio degli emarginati, delle minoranze, “sempre più emarginate ed oppresse, dalle quali invece - ne era profondamente convinto - si potevano “attingere nuove idee, diversi insegnamenti capaci di riportare l’uomo ad avere rispetto di se stesso e dei propri simili”.

La musica e la poesia le sue armi di battaglia. A proposito della musica di De André, in un documentato recentissimo articolo, Franco Fabbri su Il Sole 24 Ore, si domandava quando la questione dell’attribuzione della musica interamente a De André sarà affrontata sulla basa dei documenti e risolta definitivamente. Perché, se sul versante poetico ogni questione relativa alla paternità delle sue liriche è definitivamente risolta, al punto che taluni si sono spinti a definire De André non ‘uno dei più grandi poeti del Novecento’, ma addirittura ‘il più grande poeta del Novecento’; su quello musicale i giochi sono ancora aperti. 

E’ opinione comune che la musica delle sue canzoni, di bel conio e bellamente strumentata - sia il frutto combinato di una cooperativa, con De André a capo, della quale si conoscono tutti i soci – e questo fa la differenza con Giacinto Scelsi, dove i soci hanno preso soldi per scrivere la sua musica, ma anche in cambio del silenzio sulla loro prestazione d’opera - ma per le singole canzoni non si conoscono gli apporti e la loro consistenza. De André, non ne ha mai fatto mistero, si è servito di tanti musicisti, alcuni anche illustrissimi; egli inventava un motivo sulla chitarra, lo annotava e poi… il poi spetta agli studiosi chiarirlo. (P.A.)

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