Esortazione urbana e planetare Mariangela Gualtieri
( in versi nell'originale)
Poiché io credo nelle parole nel loro celeste di parole nel loro rosso acceso. Poiché io credo che possano fermare, sciogliere. Incendiare, dare da mangiare. Fare nascere. Fare ballare. Allora ecco: vengano a noi le bambine parole - escano chiare e fiere dalle nostre bocche. E con esse parole venga un silenzio di covature quel silenzio bello di passi e di pace dove il furore del mondo tace il furore delle nostre teste malate.
Prima che la città fosse città era tutto respiro diffuso e slargato tutto quanto era respirato. Prima che la città fosse città il selvatico della terra cantava così forte e generava da ogni vita altra vita. Poi edificammo la città coi porticati e le torri con le fontane e cuocendo la terra fabbricammo case e mura maestose - e la sola vita che ora c’è nella città, è la vita umana con la sua appendice di qualche albero qualche animale addomesticato, qualche animale che poi verrà mangiato. E tutta quella vita che era qua prima che la città fosse città tutta quella vivacissima vita è stata dimenticata.
La prima esortazione è: si possa ricordare - sempre - che ogni nostro soffio è fatto di foglie e foreste di radici e distese erbose e senza quelle sarebbe respiro attossicato, sarebbe da tempo finito il nostro piccolo essere qui.
Così, in questo anno che comincia appena vorremo frequentare la scuola superiore dei fiori, degli alberi sapienti, dei pesci, la scuola degli uccelli del cielo l’alta scuola internazionale dell’acqua da bere, dell’acqua del mare. Vorremo guardare più spesso il cielo. Le nuvole maestose e quel blu steso o anche l’addensarsi del nero fra le case, e guardare il cielo stellato - e le stelle guardiane delle parole sciolgano il nostro inquieto pensiero. Questo ti voglio dire, che non indurisca il tuo cuore e quando lo senti indurire, allora pensare che anche il mondo s’indura con te e allora voler riparare. L’augurio grande è che tu possa tornare a casa dentro te. Tornare dove hai imparato a balbettare, quando tutte le cose stavano senza nome. Tornare a casa dentro di te dove eri nuova e nuovo. E così placare quella nostalgia di non sai cosa.
Il mio augurio è di preoccuparti e tremare se pensi di essere migliore e ricordare che l’ape, che il lombrico, che anche la formica è più necessaria di te e di me a questo verdeggiare della terra. Ricordare che non sei migliore. Lo senti? Tutto sta in attesa di una pietà tutto implora una nostra resa. Ti esorto ad essere gentile. Qualunque sia il tuo genere, il tuo colore, la tua età, il tuo nome. Sii tu gentile, che non serve sbattere e sopraffare, invadere. Non serve imperare, potenziare. Bastonare. Che vincere non significa niente.
L’augurio è che le mani, tutte le mani di questa città facciano al meglio le cose e poi restino a volte inoperose in uno stare contemplante. Che le sere siano sere quando si torna nelle case a respirare in pace. E nei letti di questa città il sonno sia quel tesoro occulto in cui la stanchezza giace e si guarisce dal peso. Nessuno stia dentro un fare infelice. E quella infelicità che c’è e che ci sarà, quei giorni quando si torcono le cose allora l’augurio è che quello stare infelice porti le sue profondità e da lì, da quel gradino basso dove pare ci sia meno luce proprio lì si compia quel passo savio dove si comprendono meglio le complicate umane cose.
E chi fa il pane faccia bene il pane e chi spazza le strade, spazzi con cura le strade e chi cammina provi in cuor suo un respiro grato per questo avere cura della bella città. E chi fa il caffè faccia il più buon caffè della terra e si cominci ancora a sentire che c’è, senza dubbio c’è un bene comune generale e che si sta molto bene nel fare bene nell’avere dentro il pensiero un pensiero per chi ci sta accanto in questo traversare.
Che tu possa proteggere i tuoi – e io i miei. Che un’energia viva di salute ci tenga qui operosi generosi. Con la coscienza che, questi fragili corpi, bombardati corpi, i corpi naufragati e rotti, quelli bastonati, i violentati, sono tutti tuoi sono tutti miei. Io mi dico: sii tu a porre la misura Tocca a te, mi dico, in ogni momento tocca a te mettere lì un dettato di umanità. Sii anche tu come i pochi che prendono in braccio lo storto mondo umano e guardano la terra come guardare la madre e hanno cura grande dello sventurato, della supplicante, dell’abbandonato.
Sii tu mi dico. Non aspettare che qualcuno muova nell’aria un grido, che qualcuno alzi il suo autoritario dito. Innamorarci ogni giorno, ogni giorno un amore, che sia albero o luce del mattino, che sia nuvola o bambino, un colore, un canto, che sia il gesto di qualcuno, una faccia, una pietra, una collina, una parola, un boccone. Innamorarci. Allora la pace viene, viene da sé e rimane.
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