«Quelli della Scala sono stati anni felici, ho solo bei ricordi e per questo qui torno sempre con gioia». Appena sbarcato da Berlino, Daniel Barenboim già si sente a casa. A dargli il benvenuto in aeroporto una piccola delegazione di orchestrali della Filarmonica. Un legame di affetti mai sciolto dai tempi in cui era alla guida del Piermarini. «Ormai non mi muovo quasi più, la malattia mi obbliga a risparmiare energie. Mi prendo il lusso di dirigere qualche concerto a Berlino ma i viaggi mi costano troppa fatica. L’unica eccezione è per la Scala». Dove lunedì salirà sul podio della Filarmonica per dirigere un programma a tutto Beethoven, la Sesta e la Settima. «Due sinfonie speciali, la Pastorale è un miracolo musicale, un caso a parte rispetto alle altre. Mentre la Settima è gioiosa solo in apparenza, l’Allegretto nasconde profondità inattese».
Il concerto sarà preceduto domani sera, in occasione della Giornata della Memoria, da una prova aperta al Conservatorio dedicata all’associazione Figli della Shoah presieduta da Liliana Segre. «La memoria è necessaria in questi tempi spaventosi. L’antisemitismo non è finito, genera paura. Quello che è accaduto il 7 ottobre è orripilante. Come orripilante è quanto sta succedendo a Gaza. L’accusa di crimini di guerra è fondata».
Difficile fare musica quando il mondo sta andando a pezzi. «Eppure è una delle poche armi di pace di cui disponiamo. Può sembrare ingenuo ma non lo è. La forza della musica è unica, un linguaggio universale capace di valicare barriere culturali e politiche, creare ponti anche tra mondi ostili. Ci credo persino adesso, quando tutto sembra perduto». In nome di questa fede nel 1999 ha fatto nascere insieme con l’intellettuale palestinese Edward Said un’orchestra unica al mondo, la West-Eastern Divan, che mette insieme giovani musicisti di Israele e Palestina. «Perché suonare con il “nemico” è come ascoltarne le ragioni». Sulla stessa scia, nel 2015 ha dato vita a Berlino a una Accademia dove giovani strumentisti del mondo arabo seguono corsi di musica ma anche di storia e di filosofia ispirati alla convinzione di Said che «l’umanesimo è la sola resistenza che ci resta contro la violenza che sfigura la storia».
«Il 7 ottobre stavano provando quando è arrivata la notizia dell’attacco di Hamas. Un trauma per tutti, c’è stata molta rabbia, discussioni, ma alla fine nessuno se n’è andato. E qualche settimana dopo al concerto hanno suonato tutti insieme Notte trasfigurata di Schönberg e la Settima di Beethoven. L’Accademia va avanti e io continuo ad andare a far lezione. La musica richiede impegno e serietà». Qualità spesso latitanti, specie da noi. «La politica italiana verso la cultura non è seria. Anzi, a volte è persino ridicola. Vedi il caso del licenziamento di Lissner a Napoli e la sua immediata reintegrazione per ignoranza dei meccanismi di legge».
Il suo ritorno alla Scala arriva pochi giorni dopo l’anniversario di Claudio Abbado. «Difficile pensare che siano passati dieci anni. Ci volevano bene, ho sempre ammirato la sua curiosità per la letteratura e la pittura. E la sua generosità verso i tanti giovani che ha fatto crescere nelle sue orchestre». Giusto un anno fa ha lasciato la direzione della Staatsoper per motivi di salute. A succedergli arriverà Christian Thielemann. «È stato mio assistente tanti anni fa. Aveva 17 anni e io stavo provando il Tristan und Isolde. Gli indicai la battuta da dove doveva intervenire, lui chiuse lo spartito e continuò tutto a memoria. Un musicista di grande profondità». Cosa direbbe a un giovane di oggi? «Scegli quello che ti interessa e abbi coraggio di batterti per i tuoi ideali. Anche se, visto come vanno le cose, oggi la scelta è tra l’ottimismo e l’intelligenza».
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