domenica 24 ottobre 2021

Amici o buoni Conoscenti. Che male avremmo fatto a ritrovarceli poi quasi avversari?

Negli ultimi tempi, colpa certamente della vecchiaia, ci siamo spesso lasciati andare a confessare amarezze,  a segnalare storture a denunciare schifezze. Non vogliamo con ciò dire che ci siano mancate anche occasioni per  tirare qualche sospiro di sollievo, e lo abbiamo tirato senza risparmio, ma certo le occasioni opposte sono state di gran lunga più numerose. 

Dobbiamo anche confessare, in premessa, che alcuni personaggi ci stanno veramente antipatici, non li sopportiamo al punto da non attenerci alla  regola che tacere è meglio che parlare; ben sapendo che quel parlare potrebbe recarci qualche ulteriore danno, del quale comunque non ci curiamo. Cosa possono farci? Siamo ormai, anche per età, impermeabili e corazzati.

Certo, però, che  a Roma, prima con Fuortes, adesso forse con Giambrone, all'Opera; e a Santa Cecilia, con dall'Ongaro, dobbiamo avere sempre a che fare con persone incontrate sulla nostra strada,  alle quali niente abbiamo fatto che non si siano meritate, e che la prima critica mossa al loro operato, l'hanno presa come atto di 'lesa maestà', per cui da quel momento in avanti, ostilità se non guerra aperta.  

 Questa storia  che è troppo personale, perché possa interessare oltre noi, diretti interessati,  ad altre due o tre persone - forse! - ci fa riflettere su un fatto di carattere generale che investe diversi settori della vita sociale. E cioè sui rapporti fra potere e stampa, che tutti definiscono 'guardia del potere' e poi accettano nella variante 'serva del potere', quasi fosse la cosa più normale.

Il nostro caso attesta proprio questo,  e ogni volta che leggiamo i giornali,  cioè ogni giorno,  ci interroghiamo su quel che è scritto e su quel che si sarebbe dovuto scrivere se...

 Un esempio, tanto per chiarire. Il giornalista che sostiene un direttore artistico, o chiunque altro del mondo musicale che sente la sua poltrona traballare, perchè magari il nuovo sovrintendente lo licenzierà, forse non riceverà molto in cambio, però si assicura di avere notizie in anteprima, o di essere l'intervistatore principe di tutte le star che approdano in quel teatro.  Con lui non userà mai il pugno duro, neanche quando se lo merita. E questo nel giornalismo di oggi è pratica frequente ma immorale.

 Si dirà che non è così grave tale scambio. Vero, però di quello scambio ci si accorge drammaticamente quando, dopo un gesto ritenuto uno sgarbo, le soffiate o le interviste esclusive (quasi) finiscono, e, qualche volta, si diventa meno tolleranti. Il caso di Paolo Isotta con Muti  ci deve aver insegnato qualcosa. Prima Muti era 'il maestro'; poi è bastato un gesto interpretato dal critico come uno sgarbo, per fargli guerra, mettendo in piazza anche cose che forse non erano vere, e che se lo fossero, ancora più grave sarebbe stato negli anni il suo silenzio.

 E' così che la riflessione si spinge al dopo: che farà,  una volta ricomposto il dissidio, il nostro giornalista, per non incorrere di nuovo nella censura?

 Esattamente quello che faceva prima. Mettersi, cioè, al servizio di chi comanda. Che è poi  il succo di ciò che intendevamo dire al principio.

 Il recente Nobel 'per la pace' attribuito quest'anno a due giornalisti che hanno sfidato il potere e mai si sono piegati ad esso,  insegna che il problema esiste ed è anche drammatico.

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