Giù le mani da Otello. Dopo Del Monaco e i pochi tenori toccati dalla fiamma del sacro fuoco, chi altri può dar voce e corpo al protagonista del capolavoro tra i capolavori di Giuseppe Verdi tratto da Shakespeare? Meglio vivere di ricordi piuttosto che ascoltare i tenori d'ultima generazione. È il mantra dei melomani incalliti, sempre prodighi di consigli (poiché non praticano). In breve, quando un tenore osa toccare questo ruolo, peggio se lo debutta, si solleva un vespaio.
Di tutto questo è consapevole Francesco Meli, che per la prima volta oggi sarà Otello, aprendo la stagione della Fenice di Venezia, con diretta su Radio3 e repliche fino all'1 dicembre. Sul podio, Myung-Whun Chung, alla regia Fabio Ceresa, scene di Massimo Checchetto e costumi di Claudia Pernigotti. Nel cast, fra gli altri, Luca Micheletti (Jago), Karah Son (Desdemona), Francesco Marsiglia (Cassio). Questa, tra l'altro, sarà l'ultima inaugurazione nella Serenissima per il sovrintendente Fortunato Ortombina, da marzo al comando della Scala.
Meli, tremano i polsi?
«Da tempo ho la testa su questo ruolo, ho ascoltato tutto e tutti, ho letto, ho studiato. Mi sento pronto».
L'aspettano al varco. Lo sa.
«Sono già spianati kalanikov e baionette. Pazienza, li affronterò. A maggio, quando venne comunicato il titolo d'apertura, si è scatenato il mondo su Facebook».
Il commento più spassoso?
«Arriva Otellino».
Eppure questo è il suo ruolo verdiano numero?
«diciotto. Posso avere il diritto di mettermi alla prova? A casa, nel proprio studio, vengono cose che poi non riesci a realizzare sul palcoscenico, e viceversa. Provo, e se qualcosa va storto, dietrofront. Al netto di tutto, su questo ruolo pesano tanti pregiudizi».
Il più diffuso?
«Ci vogliono tre tenori per fare Otello».
Come per Violetta-Traviata.
«Per Traviata è vero. Qui non è il caso, uno è più che sufficiente: basta cantare ciò che è scritto. È un ruolo come altri di Verdi, con le sue difficoltà e peculiarità, affrontabile anche con una vocalità da tenore lirico spinto anziché drammatico perché esige una veemenza virile più che eroica. Del resto, il nostro mondo è schiavo di stereotipi e di regole scritte da nessuno».
Si aggiungono poi i nostalgici del passato.
«Nelle cronache dell'opera del Seicento si lamentava il fatto che non c'erano i cantanti di una volta. La storia si ripete».
Otello, il Moro di Venezia, avrà il viso pittato di nero?
«Sarà bianco, così ha voluto il regista».
Che si fa quando Otello si chiede se è per il colore della pelle che Desdemona l'ha tradito («Forse perché ho sul viso quest'atro tenebror»)?
«Infatti è una scelta che non condivido perché la provenienza geografica di Otello e dunque il colore della pelle hanno un valore drammaturgico; la tesi è che il bianco Jago è il malvagio che va a istigare Otello portandolo a commettere un crimine».
Tempi duri per la lirica tra cancel culture, la blackface considerata pratica razzista, body shaming e varie trovate statunitensi. Il mondo dell'opera sta cambiando molto: cosa in peggio e cosa in meglio?
«Si è aperto alla società a 360 gradi, non è più un fatto mummificato. Penso alla regia di questo spettacolo, per esempio, allo scavo fatto su ogni personaggio, alla recitazione in linea coi nostri tempi. Ora c'è più empatia tra palcoscenico e platea».
Però?
«L'opera ha perso i connotati della sua identità, esemplificando quella che ancora conservano il musical e il balletto. Quando vai a vedere il Lago dei cigni di Cajkovskij vuoi vedere i cigni, le piume, così come nessuno si sogna il Fantasma dell'opera ambientato nel Bronx o in una discarica di rifiuti. Il paradosso è che ci siamo aperti al dialogo con il pubblico, ma perdiamo pubblico».
A proposito. Per questo Otello dobbiamo aspettarci l'ambientazione, così di moda, stile Ikea, monocolore, grigia o bianca?
«È un Otello bizantino, con rimandi ai mosaici di San Marco».
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