Non a caso domenica i partecipanti al vertice di maggioranza convocato di sorpresa si sono sforzati con successo di nascondere il luogo dell’incontro, rivelatosi a cose fatte casa di Giorgia all’ora dell’aperitivo. Di tensioni e nodi aggrovigliati ce ne sono un bel mucchietto e meno trapela meglio è. Infatti non è trapelato quasi nulla. Ufficialmente si è parlato quasi solo di manovra, che a conti fatti è il meno spinoso dei problemi. Forse è vero, forse no.
Su quel fronte la premier si sente al sicuro. Certo, Lega e stavolta soprattutto Fi martellano chiedendo modifiche che implicano l’allargamento dei cordoni della borsa. Tajani, che negli ultimi tempi ha raccolto numerosi successi, pretende che al partito azzurro venga riconosciuto il non essere più la Cenerentola della maggioranza e dato che la premier nutre radicale idiosincrasia per rimpasti e relativi valzer delle poltrone, almeno si compensi Fi largheggiando con gli emendamenti. Ma su quel punto Giorgia ha sempre una via d’uscita facile: l’ultima parola spetta al ministro dell’Economia, invitato infatti con i capipartito (Lupi di Noi moderati incluso) e Giorgetti è più o meno come il leggendario lettone Dombrovskis. Dire rigido sui conti è ancora molto poco.
La premier se l’è cavata così anche domenica: “Sulle coperture decide il ministro”. In concreto, si vaglieranno solo le modifiche condivise da tutta la maggioranza e su quella base sarà Giorgetti a dire cosa si può fare e cosa no. La prima colonna sarà scarna, la seconda folta. Di certo non si potrà ridurre l’aliquota del secondo scaglione Irpef dal 35 al 33%, in questo momento cavallo di battaglia di Tajani. Costerebbe 2 miliardi e mezzo: non se ne parla. Magari più tardi. Ci scapperà la proroga del taglio del canone Rai da 90 a 70 euro, qualcosa per le famiglie e per le forze dell’ordine, essendo quelli i pilastri della visione condivisa dalla maggioranza, forse anche la riduzione dell’Ires per le aziende che reinvestono e destinano parte congrua del reinvestimento all’innovazione. Ma è robetta e se qui la tensione è bassa e più di facciata che di sostanza è proprio perché si tratta comunque di spiccetti e interventi minimi e nessuno nella maggioranza si aspetta di più.
Le cose stanno diversamente con i passaggi davvero difficili, quelli dei quali non si è parlato o si è parlato appena. La sostituzione di Fitto, per esempio: la premier si è limitata a rinviare sino a gennaio la scelta del sostituto. Sino a quel momento la gestione del Pnrr resterà in capo a Chigi, cioè ai due sottosegretari di fiducia Mantovano e Fazzolari. Un nome in mente pare che Giorgia ce l’abbia: Elisabetta Belloni, oggi direttrice del Dipartimento informazioni per la sicurezza di palazzo Chigi, quello incaricato di coordinare e controllare i servizi segreti, in precedenza alta funzionaria degli Esteri. La presenza della diplomatica darebbe certamente lustro a un governo che da quel punto di vista decisamente non brilla. È stata tra i principali funzionari degli Esteri, se ne era parlato persino come possibile presidente della Repubblica nell’ultima corsa al Colle. Il problema sono le resistenze, pare in particolare del ministro degli Esteri Tajani che probabilmente non gradisce una presenza che finirebbe per essere concorrente nel suo stesso pascolo.
Poi c’è l’autonomia e lì parlare di compattezza della maggioranza è una barzelletta. Salvini, dopo essere uscito molto ammaccato dalla sentenza della Consulta, ora vorrebbe procedere a passo di carica, limitandosi ad applicare le modifiche, quanto più limitate possibile, ordinate dalla Corte costituzionale. Fi, che l’autonomia l’ha sempre digerita male, insiste invece per un vero passaggio parlamentare dal quale l’autonomia di Calderoli, della quale già resta poco, uscirebbe svuotata del tutto. Per non parlare del Veneto. A questo punto per Salvini confermare la bandierina del Carroccio sulla regione-roccaforte potrebbe essere questione di vita o di morte.
La premier non intende rinunciare alla conquista per il suo partito di almeno una Regione del Nord e il Veneto è la sola papabile. Però non vuole neppure mettere a rischio la leadership di Salvini, essendo politica troppo navigata e abile per non sapere che qualsiasi sostituzione le renderebbe solo la vita più difficile. Così evita il passo che suonerebbe davvero come definitivo e non impugna la legge regionale campana che permetterebbe, o permetterà, a De Luca di ricandidarsi. Senza impugnazione quella legge verrebbe di certo ripresa dal Veneto consentendo a Zaia di correre non per il terzo ma per il quarto mandato. Che se ne sia parlato o meno, sono questi gli argomenti per il governo tanto imbarazzanti da giustificare l’appuntamento in località semisegreta, non la finta baruffa sulla manovra.
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