Liceo classico sì, liceo classico no. C’è chi lo ritiene un percorso ormai non più al passo coi tempi, e forse a questo si deve il crollo inarrestabile degli iscritti, confermato anche quest’anno dagli impietosi dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito.
Ma c’è anche chi ne rivendica la validità e soprattutto l’attualità: parla Mario Rusconi, presidente ANP Roma Stanno facendo discutere più del previsto i dati sulle iscrizioni alle prime classi delle scuole superiori in partenza il prossimo settembre. Che, oltre a mostrare l’ennesimo dominio dei licei scientifici, scelti da più di 1 studente su 4, certificano la crisi inarrestabile dei licei Classici, opzionati da appena il 5,8% alunni di terza media. Ad amplificare il dibattito ci ha pensato soprattutto Massimo Gramellini che nel suo “Caffè” quotidiano sul Corriere della Sera, oltre a dirsi “pessimista” dopo aver letto la notizia, si è scagliato contro quanti hanno affossato l’istruzione classica seguendo «lo spirito del tempo, secondo cui che la scuola serve solo a trovare lavoro» e che pensano «che il mondo di domani avrà più bisogno di tecnici che di umanisti». Quando, invece, secondo Gramellini «il classico non ti spiega come funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti perché»; paragonandolo a una cyclette, che «mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte. Ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto».
Il liceo Classico serve ancora? A questo punto la domanda sorge spontanea: chi ha ragione? Quelli che considerano il liceo Classico un qualcosa di superato o quanti trovano in questo percorso ancora una profonda ragion d’essere.
A fornire qualche elemento in più per dirimere la contesa è intervenuto Mario Rusconi, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi di Roma, docente e dirigente scolastico di lungo corso, che ha vissuto dall’interno le varie fasi della scuola per oltre quarant’anni. A raccogliere il suo punto di vista il sito Skuola.net. Le iscrizioni al liceo classico sono state in calo.
Secondo lei qual è la ragione di fondo?
«È un problema culturale delle famiglie. Innanzitutto, ancora oggi i licei sono preferiti agli istituti tecnici perché considerati scuola di serie B. E il liceo scientifico è altresì visto come l’anticamera per seguire all’università, con maggiore speditezza, le facoltà scientifiche. Ma non si deve dimenticare che insegnamenti come il latino, il greco, la filosofia, aiutano lo studente durante il suo percorso formativo al ragionamento, alla riflessione, alla logica proprio come la matematica o la fisica.
È perciò sbagliato pensare alla formazione umanistica come un percorso obsoleto che non sia rispondente ai tempi, alle necessità o agli stimoli dettati dallo sviluppo tecnologico». Cosa si può fare per invertire la rotta?
«Bisognerebbe avere come punto di riferimento la digital humanities, ovvero quella scienza umanistica in grado di supportare e indirizzare lo sviluppo scientifico. Quest’ultimo, infatti, senza la prima rimarrebbe puro esercizio tecnico. Per dire, lo scienziato Jerry Kaplan afferma che oggi è più importante preparare i ragazzi nelle scienze umane e non in quelle tecniche. Lui stesso consiglierebbe ai suoi figli la scelta universitaria verso un indirizzo umanistico piuttosto che scientifico/tecnologico».
In un mondo del lavoro che punta sempre di più sulle STEM come può collocarsi uno studente che sceglie gli studi umanistici?
«L’acronimo STEM indica sia le discipline scientifiche sia i corsi di studio. L’importanza e le conoscenze di queste competenze sono indiscusse. Una società moderna e compiuta deve però pensare che il progresso scientifico e quello tecnologico si muovano parallelamente al progresso morale e a quello sociale. Le STEM, però, riguardano soltanto il progresso, la competizione e l’innovazione ma non i temi etici e di giustizia sociale. Non possiamo credere che la vita di ciascuno di noi venga decisa o governata da Intelligenze Artificiali come Alexa o Siri».
Qual è, in questa dinamica, il ruolo che può ricoprire la scuola?
«Oggi il percorso educativo deve saper combinare le competenze scientifiche e quelle umanistiche e del multilinguismo. La scuola può contribuire a far crescere nei giovani questa visione. In questo senso gli umanisti dovrebbero sforzarsi nel misurarsi maggiormente con il pensiero STEM, comprendendolo nell’intimo, per poi fornire quel giusto indirizzo etico-morale alle innovazioni tecnologiche. Durante la pandemia abbiamo assistito a umanisti che si sono scagliati contro la didattica a distanza non dando alternative e, invece, non hanno compreso che così facendo hanno lasciato campo libero a chi scrive il software. La cultura del pensiero occidentale si è fondata sulla sinergia tra: filosofia, poesia e scienza».
Quindi il mondo dell’istruzione ha le sue responsabilità, non è solo “colpa” delle famiglie…
«Con la specializzazione dei saperi si sono creati steccati ideologici tra il sapere scientifico/tecnologico e il sapere umanistico, sfociando in un solco sempre più profondo. Nel sapere scientifico/tecnologico si deve innestare il pensiero umanistico in modo da consentire scelte più consapevoli dei problemi trattati e dei valori in gioco. Il pensiero umanistico, d’altro canto, deve comprendere il pensiero scientifico/tecnologico per affrontare quei problemi etico/morali da esso generati».
Ma, ragionando in concreto, c’è ancora spazio nel mondo del lavoro per chi sceglie la formazione “classica”?
«Se, ad esempio, oggi Alexa non è più un timer casalingo ma un consigliere, un tuttologo, è perché dietro c’è chi gli ha fornito gli strumenti “lessicali” per comprendere la lingua italiana, le diversità culturali dei dialetti, le inflessioni. Tutto questo è stato possibile grazie a una squadra composta da laureati in lettere e filosofia, diretta da un’antropologa. L’algoritmo e i suoi programmatori hanno registrato quanto gli è stato trasferito dagli umanisti. Mi pare sufficiente».
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