La settimana scorsa, mentre insegnavo la sillabazione a un ragazzo egiziano, chiamiamolo Sayed, lui, senza che io glielo avessi chiesto, ha voluto raccontarmi la sua traversata dalla Libia fino alla costa calabrese. Così è iniziato il nostro dialogo fatto di parole, certo, ma soprattutto di sguardi. Quanti eravate sul gommone? Aprendo le mani più volte perché ancora non conosce i numeri, me lo ha fatto capire: un centinaio. Sai nuotare? Ha scosso la testa. Quanto tempo avete impiegato a raggiungere la terraferma?
Quattro giorni e quattro notti. Cosa mangiavi? Biscotti. Come sei riuscito a resistere? A quel punto il sorriso adolescente del mio studente si è trasformato in una specie di smorfia: lì ho percepito che alcuni suoi compagni erano affogati. Ecco perché le notizie appena giunte da Lampedusa mi toccano nel profondo: come accade a tanti volontari che operano nella rete di accoglienza diffusa sul territorio nazionale, ci si interroga sul senso che dobbiamo attribuire alla nostra azione. Cosa posso fare io, nel mio piccolo, di fronte a questo scempio a cielo aperto?
Guardo Kevin, il bambino nigeriano che gioca con il lego nella grande sala piena di immigrati impegnati a studiare i verbi e penso al neonato morto pochi giorni fa, prima che la barca giungesse a riva, gettato in mare dalla madre disperata, scomparsa anche lei, insieme all’uomo che si era tuffato in acqua nel tentativo estremo di recuperare il corpicino. Otto cadaveri, tre donne, una in avanzato stato di gravidanza, trovati su una barca dalla Guardia Costiera, nella notte fra giovedì e venerdì.
Prima e dopo l’ennesima tragedia e forse anche adesso e nei giorni che verranno continuano ad arrivare imbarcazioni, quasi una dietro l’altra, con gente stremata, proveniente dall’Africa subsahariana, cioè dagli stessi Paesi che in questa settimana il Papa sta visitando, persone spesso reduci dalla prigionia, con segni tangibili delle violenze subite, mentre il Governo italiano, invece di incrementare i soccorsi, rendendoli rapidi e efficaci, continua ad assegnare i porti più lontani alle navi delle Ong, di fatto ritardando l’aiuto umanitario.
Noi che insieme ai sopravvissuti restiamo al sicuro nelle nostre case abbiamo il dovere di raccogliere il testimone caduto a terra, quel sogno di libertà e lavoro, uguaglianza e fraternità, capace di spingere un popolo di sconfitti dalla storia a volersi costruire un futuro migliore. A me queste sventure colpiscono anche perché sono stato nei luoghi che hanno visto consumarsi il recente dramma: il molo Favaloro, punto di primo approdo, dove Pietro Bartolo, nei suoi trascorsi come medico a Lampedusa, accoglieva i naufraghi, spesso visitandoli senza che loro se ne accorgessero; il cimitero di Cala Pisana, nella cui camera mortuaria vengono ammassate le salme prima di venire condotte in Sicilia; Sfax, la città tunisina dalla quale pare sia salpata l’ultima imbarcazione, vicino alle spiagge dove gli adolescenti si uniscono a gruppi sognando l’Italia vista in televisione.
Specialmente chi conosce i poveri villaggi africani dispersi da cui i migranti vengono sa quanto sia assurdo voler sindacare sulle ragioni che li conducono qui: quando nasci in un posto privo di prospettive, senza istruzione né sanità, se ti ammali nessuno ti cura e non hai la possibilità di guadagnare uno stipendio dignitoso, allora sei condannato alla miseria, all’ignoranza, infine costretto a partire.
Ciò che accade durante i viaggi della vita e della morte lo sappiamo soltanto per bocca dei salvati i quali, come ci insegnò Primo Levi, non possono spiegarci sino in fondo i dettagli della tragedia che hanno attraversato. Gli unici che potrebbero farlo sono i sommersi, la cui storia invece sprofonderà per sempre muta negli abissi.
Sayed, senza ancora poterlo esprimere, me l’ha fatto capire. E chissà, c’è da sperarlo, forse le frasi che gli insegneremo lui le utilizzerà, persino senza rendersene conto, per parlare a nome degli amici che non possono più farlo.
Nessun commento:
Posta un commento