Quando due anni fa, all'inizio della pandemia, fummo tutti rinchiusi, a doppia mandata, in casa, e chiusero anche tutti i luoghi di aggregazione, compresi quelli di spettacolo ( sale da concerto, teatri, cinema) dopo i primi giorni di grande paura, cominciammo a ragionare su come saremmo usciti dalla pandemia, una volta addomesticato il virus, e a quali cambiamenti, perfino profittando della pandemia, avremmo dovuto mettere mano, in ogni campo, perchè - dicevano tutti - dopo nulla sarà più come prima.
In effetti si aveva ragione ad interrogarsi su molti aspetti della nostra vita sociale, in un periodo abbastanza lungo in cui tutto il mondo si era fermato nella corsa vorticosa quotidiana, ed era costretto, se lo avesse voluto, a fare il punto della situazione.
E, i più ottimisti, cominciarono ad avanzare ipotesi di vita postpandemica del genere: saremo tutti migliori, perchè - spiegavano - la mazzata del Covid difficilmente arriva e passa senza lasciare traccia.
Purtroppo si è visto che tutto o quasi è rimasto come prima, salvo naturalmente il costo in fatto di vittime e la sofferenza diffusa che il virus ha prodotto. Sono rimasti, come in ogni tempo, tutti quei mostri che, già all'indomani del terremoto aquilano e di altri disastri imparammo a stanare, i quali pensarono subito, sfregandosi le mani, alle enormi possibilità che quei disastri offrivano a loro, moderni predoni, in fatto di guadagni, benchè macchiati di sangue e lacrime. Ma questi sono fatti che di cui la magistratura si occuperà e forse riuscirà anche a stroncarli. Almeno lo speriamo.
Dove tutto sembra essere tornato come prima è nel settore dello spettacolo che poi è quello che più ci interessa.
Leggevamo ieri una dichiarazione del giovane direttore Lorenzo Viotti che ci ha confermato nelle nostre previsioni non proprio rosee, e cioè - diceva il direttore - che i teatri a Roma come a Vienna o altrove sono VUOTI. Se non proprio vuoti, fanno davvero fatica a riempirsi, perchè la paura non è ancora stata domata, e perchè non può essere che mentre stiamo per uscire dal disastro pandemico, tutto torni come prima. Che è esattamente ciò a cui assistiamo.
Nulla è accaduto nel settore dello spettacolo dal vivo, come conseguenza pratica dei buoni propositi di qualche mese fa. Non ci sembra di vedere un qualche cambiamento, anche di quelli semplici da impiantare.
Si era detto: riguardiamo la durata e la conformazione dei concerti: niente di fatto. Si era detto anche avviamo tecniche di acquisizione di nuovo pubblico, andando a cercarlo. Anche qui nulla di fatto. Qualcuno, non certo fra i diretti interessati, cioè le star di varia luminosità, aveva anche avanzato l'idea di riguardare e rivedere le modalità e l'entità dei loro cachet. Ma che, vi pare mai che faranno qualcosa del genere? Non conosciamo l'entità di simili compensi, ma crediamo che conoscendoli, inorridiremmo, come ci capita di inorridire ogni volta che sentiamo le cifre di passaggi, prestiti ed acquisti del calcio mercato.
Quando le partite si giocavano a porte chiuse, i titolari dei vari club lamentavano l'enorme ammanco nelle casse delle società. Mai però che si è detto e deciso di porre un calmiere a questo sciagurato, inutile mercato sportivo, che di sportivo ha ormai troppo poco.
Tornando alla musica, perchè, ad esempio, proprio per riportare il pubblico a teatro o in sala da concerto, non si sono rivisti i programmi, rendendoli popolari, e badando nella loro stesura più che a quei quattro critici stantii che non pagano il biglietto, alle platee? Perchè non si è messo mano ad una sana politica dei prezzi, altro elemento importante per rifidelizzare il pubblico già esistente e per crearne di nuovo?
Tra le tante cose che abbiamo letto, solo qualche cenno a tutto ciò. la Scala di Meyer, ad esempio, ha messo mano ad un calmiere dei prezzi dei biglietti; ed ora Pereira, a Firenze, ha deciso che per ogni spettacolo del Maggio Musicale Fiorentino, ci sarà una serata con biglietti il cui costo sarà abbattuto del 50%. Non è tantissimo, ma è già qualcosa.
Il discorso tante volte ascoltato, in periodi di vacche grasse - anche se è da decenni che viviamo anni di vacche magre - e cioè che una serata a teatro non costava poi tanto di più di una in pizzeria, non ha senso. La cultura, la bellezza, se si vogliono educare i cittadini ad ambedue, non devono costare, perché proprio coloro che ne avrebbero più bisogno non hanno i mezzi necessari.
Sembra non riesca a capire chi dice che il costo dei biglietti per concerti e teatri non si discostano molto da quelli che si praticano in altre nazioni, che, in Italia, gli stipendi sono tutti al di sotto di quelli di molte altre nazioni europee, se non addirittura di tutte, e dove, questa sì che è la più alta fra le nazioni europee, la disoccupazione non accenna a calare in misura considerevole.
Ogni volta che viene riproposto tale argomento, si deve opporre la protesta contro chi, ai vertici di gran parte delle istituzioni culturali e di spettacolo finanziate dallo Stato, viene lautamente compensato in fatto di stipendio.
Noi, lo ripeteremo fino alla noia, inorridiamo al pensiero che uno come Michele dall'Ongaro, sovrintendente di Santa Cecilia, e come lui altri, guadagni 240.000 Euro l'anno, che è poi il compenso del Presidente della Repubblica, od anche quello dell'Ad della Rai che ha 13.000 dipendenti ed un bilancio miliardario il cui andamento dipende molto dalla sua azione. A Santa Cecilia, piove o tira vento, il compenso dei vertici è sempre lo stesso (oltre dall'Ongaro, altri dirigenti dell'Accademia hanno stipendi sproporzionati rispetto alle loro effettive responsabilità) e questo è scandaloso, in periodi in cui la gran parte dei cittadini se la passa davvero male.
Se neanche la pandemia ha portato qualche correzione strutturale, allora non c'è davvero nessuna speranza che qualcosa mai cambierà.
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