lunedì 10 gennaio 2022

L'orchestrina di Mauthausen. La storia angosciante di una foto terribile, di Leoncarlo Settimelli

 

La foto è ben nota e fa parte della iconografia dei lager. È una foto che ha fatto il giro del mondo, eppure è sempre stata presa in considerazione (anche dal sottoscritto) perché mostra una orchestrina con pochi strumenti suonati da deportati; esseri infelici che indossano il vestito a righe o abiti di altri prigionieri già deceduti. Due sono suonatori di fisarmonica: il più alto è un tedesco, si chiama Wilhelm Heckmann, ed è un «triangolo rosa», nella classificazione adottata dalle SS. È anche un pianista e un tenore ben noto, ma qui deve suonare la fisarmonica, e si accontenti, perché questo gli consente di restare in vita e di non finire a portar pietre lungo i 186 scalini della Wiener Graben. È finito a Dachau prima e a Mauthausen poi per la sua omosessualità, come ha testimoniato di recente una nipote. L’altro fisarmonicista è George Streitwolf, secondo la testimonianza dello stesso Heckmann. Non si conoscono invece i nomi dei tre o quattro suonatori di violino. Camminano vicino ad un muro – che oggi sappiamo essere senza ombra di dubbio un muro del lager di Mauthausen – mentre altri due deportati trascinano un carretto sul quale si vede un uomo in piedi. E' il 1942.

Ebbene, di quell’uomo c’è il nome: si chiama Hans Bonarewitz, austriaco. Diciotto giorni prima è fuggito dal lager, nascondendosi in una cassa di legno, quella poggiata sul carretto dalle SS, che vogliono far vedere agli altri prigionieri che dal campo si può fuggire sì, ma poi si viene ripresi insieme con l’oggetto servito per la fuga. A Hans è andata così: in servizio presso la lavanderia, è entrato nella cassa ed ha aspettato che venisse caricata su un furgone. Poi ha girovagato per i boschi, forse è arrivato fino al Danubio e allora è tornato indietro ed ha finito per perdersi. E poi, se non c’è chi ti da una mano, come puoi resistere alla fame e al freddo della notte? C’è una canzone che ricorda la fine degli evasi che chiedono aiuto: vi si descrive come la popolazione tedesca, o austriaca, quando li incontra, chiami le SS e li riconsegni. Pena prevista per i fuggitivi, fucilazione o impiccagione. Questo è accaduto a Hans, che le SS hanno condannato a morte e costretto a salire sul carretto, davanti alla cassa che gli è servita per la fuga. Tutti i deportati debbono vedere che fine si fa a fuggire. Così l’orchestrina, per ordine delle SS, suona beffardamente Tornerai, una canzone italiana di Olivieri ben conosciuta in tutta Europa, e il carretto viene trainato per tutto il campo. Poi Hans viene impiccato. Il comandante del lager ora può appuntarsi un’altra onorificenza sulla divisa. 

Ma chi ha scattato la sequenza di fotografie che appaiono anche nel Memoriale della Shoah di Washington? Forse le stesse SS, forse un deportato catalano di nome Francisco Boix Campo, un giovanotto che un’altra foto ci mostra sullo sfondo del filo spinato con una macchina fotografica (probabilmente una Leica) a tracolla. Francisco ha poco più di vent’anni, è stato iscritto al partito comunista spagnolo e ha combattuto nelle file repubblicane. Il suo mestiere era il fotografo ma la guerra lo ha portato via da Barcellona (dove è nato nel 1920) per andare a combattere contro i falangisti. 

Quando i repubblicani sono stati sconfitti, anche lui, come migliaia di altri, è riparato in Francia. Ma i nazisti hanno occupato il paese, e Francisco è finito a Mauthausen, dove la maggioranza dei deportati è spagnola. Gente tosta, che all’interno del campo sa organizzarsi e cerca di vivere il meno peggio possibile, aggirando regolamenti e repressione. Francisco Boix viene destinato dalle SS al laboratorio fotografico, quello dove si registrano i deportati con le foto di tipo segnaletico. Sicché maneggia rullini e macchine fotografiche e oltre a effettuare qualche scatto di nascosto, gli capitano tra le mani le foto delle SS. Sicché fa sparire i negativi, circa 2.000, li nasconde nelle baracche ma approfittando dei deportati che escono dal lager per lavoro, li fa nascondere nel muro di una abitazione

Quando gli americani, nel maggio 1945, liberano Mauthausen, Francisco scatta le foto che conosciamo dell’abbattimento dell’aquila nazista ma soprattutto mostra ai liberatori le foto di coloro che si sono aggrappati al filo spinato elettrificato per farla finita con la sofferenza, degli altri che la fame ha ucciso vicino alle baracche, dei lavori di scavo cui i deportati sono stati obbligati. Tanto che i francesi e gli americani chiameranno Francisco Boix a testimoniare a Norimberga e a Dachau nei processi contro i criminali nazisti, dove mostrerà le foto ritrovate nel laboratorio di Mauthausen o da lui scattate di nascosto. 

Su Boix esiste un bellissimo documentario, Francisco Boix un fotografo en el infierno, girato nel 2000 da Llorenc Soler, regista catalano come catalano era Francisco, a Mauthausen contrassegnato col numero di matricola 4186. Boix, nel dopoguerra, ha lavorato come free-lance ma soprattutto ha scattato tante foto per Humanité, il quotidiano dei comunisti francesi. È morto nel 1951, quando in Spagna regnava ancora Francisco Franco. 

Ma ora che il dittatore non c’è più, anche l’editoria spagnola si è occupata di lui, con il libro di Benito Bermejo intitolato Francisco Boix, el fotografo di Mauthausen, Fotografias de Francisco Boix y de los archivos capturatos a los SS de Mauthausen, pubblicato nel 2002. Grazie a lui e alle sue fotografie, ora conosciamo qualcosa in più dell’orrore dei lager nazisti.

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