Putin, che pur condannando le purghe degli anni Trenta, ha sempre lodato le capacità militari di Stalin, in questi giorni è certamente tornato con il pensiero a quel giugno del 1941. Per la prima volta da allora truppe straniere hanno varcato la frontiera e hanno portato la guerra sul sacro territorio della madrepatria, a Kusrk.
Ma lo Zar non vuole assolutamente che le due situazioni vengano paragonate: questa non è un’invasione dell’esercito ucraino, non è un attacco, ma una semplice «grande provocazione». E anche ieri il leader si è riferito agli eventi in corso, al tentativo di rintuzzare le truppe nemiche come a una nuova Kto, «Operazione antiterroristica».
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Kiev sta cercando di migliorare la sua posizione negoziale, dice il capo che subito aggiunge: «Di quali negoziati parliamo? Non si può certo trattare con chi colpisce i civili».
Putin, come tutta la Russia, è inferocito con i militari. Rischia grosso Valerij Gerasimov, il capo di Stato maggiore. L’8 agosto diceva che i suoi uomini avevano già contenuto l’invasione e stavano respingendo gli ucraini. «Una colossale bugia», hanno tuonato i blogger più attivi sui siti nazionalisti.
Ma il signore del Cremlino mantiene la calma, non fa assolutamente trapelare le sue emozioni, come è sempre avvenuto nei momenti più drammatici, dall’affondamento del sottomarino Kursk nell’agosto del Duemila, quando era da poco diventato presidente, agli attacchi terroristici di Mosca e di Beslan.
Chi lo conosce bene, o dice di conoscerlo, è convinto che Vladimir Vladimirovich in realtà sia su tutte le furie. «Da tempo non era così arrabbiato», ha scritto Aleksandr Dugin, il filosofo che ispira il leader e che due anni fa (sempre in agosto) perse la figlia in un attentato del quale doveva essere lui stesso vittima. Per Dugin, «Putin ha lasciato capire che da oggi si può trattare solo della resa incondizionata dell’avversario e della completa distruzione del regime criminoso di Kiev».
Un altro richiamo, involontario, a quel 1941 del quale lo Zar non vuole invece assolutamente sentir parlare. Quando alle quattro del mattino del 22 giugno le divisioni tedesche iniziarono a varcare la frontiera dopo intensi bombardamenti, nessuno osò per lungo tempo svegliare Stalin, il Vozhd, il capo supremo.
Le truppe lungo il confine furono colte del tutto impreparate. Solo alle sette del mattino partì da Mosca l’ordine alle armate dell’Ovest di «distruggere il nemico». Non sappiamo quando Putin sia stato informato del fatto che alle 5.30 del 6 agosto gli ucraini avevano incominciato l’invasione (su scala minima) della Russia. Di certo i reparti schierati nella regione di Kursk erano inadeguati e, anche questa volta, non avevano ricevuto alcun avviso dall’intelligence.
E dire che appena un anno fa, il 23 giugno, il Cremlino era stato messo in enorme imbarazzo dalla scorreria dei mercenari della Wagner che si erano impadroniti della città di Rostov sul Don e avevano poi iniziato a marciare verso Mosca senza incontrare alcuna seria resistenza per centinaia di chilometri, fino a Voronezh e quasi a Tula, a ridosso dell’oblast (provincia) della capitale. Era emerso chiaramente che le aree a ridosso del fronte erano quasi completamente sguarnite, con la maggioranza delle forze concentrate nell’«operazione speciale» nel Donbass.
Difficile adesso per il nuovo Vozhd sostenere che nel Paese tutto continua come prima e che la questione ucraina non condiziona la vita dei russi, con decine di migliaia di sfollati e una parte del territorio tenuto dai nemici.
Quando il governatore di Kursk nella riunione di ieri si è azzardato a parlare della «penetrazione ucraina» estesa per 12 chilometri, Putin lo ha interrotto nervosamente: «Lasciamo la questione ai militari; lei si deve occupare dell’assistenza alla gente».
Personaggi dell’entourage del capo parlano ora di guerra totale, di sforzo senza precedenti, come nella Seconda guerra mondiale, chiamata in Russia la Grande guerra patriottica: «Tutto per il fronte, tutto per la vittoria». Ma si tratta di una visione in contrasto con l’idea che si stia affrontando semplicemente una «provocazione terroristica». Putin dovrà decidere quale linea dare al Paese e ciò dipenderà da come andranno le operazioni sul terreno.
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