Specchio del più ampio e problematico mondo del lavoro culturale, l’ecosistema della Biennale non è esente da radicate criticità strutturali. Mancanza di un salario minimo, esternalizzazioni e deresponsabilizzazione da parte dell’istituzione nei confronti delle condizioni di lavoro più svariate, sempre di competenza dei singoli padiglioni e mai dell’organizzazione centrale. E poi ancora confusione contrattuale, applicazione di contratti di settori non pertinenti, mancata tutela della sicurezza sul lavoro.
Nella sua complessità, la Biennale ingloba tutte le criticità tipiche del lavoro nel mondo dell’arte. Un lavoro che non è percepito come un diritto, ma come un privilegio o una passione, e che in quanto tale viene spesso non retribuito. Per far fronte comune contro questa situazione, un gruppo di lavoratori si è costituito in assemblea, dando vita, nel maggio del 2023, al progetto Biennalocene: uno spazio di auto-organizzazione e di mobilitazione – facilitato da Sale Docks, Institute of Radical Imagination, ADL Cobas e Mi Riconosci? – per lottare contro le condizioni di precarietà e sfruttamento che caratterizzano il settore artistico nella laguna veneziana. Nel corso dei mesi, i ragazzi e le ragazze di Biennalocene hanno dato vita alla Carta metropolitana del lavoro culturale, mettendo nero su bianco i diritti dei lavoratori del settore: mediatori culturali, addetti alle pulizie, artisti, performer, curatori, guardasala, lavoratori dipendenti o autonomi. Artribune li ha incontrati per approfondire il progetto e farsi raccontare, in prima persona, le criticità del lavoro culturale e, nello specifico, quelle legate alla Biennale.
Intervista a Biennalocene
Quando, come e da quali esigenze nasce il progetto?
Davide Giacometti: Biennalocene nasce da un lavoro che è stato fatto da alcuni componenti dell’Institute of Radical Imagination che, collaborando con il padiglione tedesco della Biennale dell’anno scorso, hanno lavorato su una performance-inchiesta, partendo da una serie di interviste fatte ai lavoratori dell’arte qui a Venezia. Il primo appuntamento “pubblico” si è svolto durante le vernici dell’anno scorso alla Giudecca. Durante questa performance, tante persone hanno “interpretato loro stesse”, in un format che sembrava quello di un’assemblea aperta, raccontando le difficoltà della condizione di questi lavoratori a Venezia, basandosi sulla loro esperienza. Alcuni di loro indossavano una maschera che ne celava l’identità, perché in questo settore c’è molta ritorsione, c’è molta paura nel raccontare quello che succede veramente in questo campo. E quindi c’è bisogno di questa “rete di salvataggio” per essere sicuri che tutte queste storie non portino a problemi successivi. Da lì in poi si è entrati nella seconda fase: creare un’assemblea permanente con i lavoratori dell’arte a Venezia. Ci siamo incontrati circa una volta al mese a Sale Docks e abbiamo steso la Carta dei Diritti per i Lavoratori dell’Arte, che per noi è un punto di partenza per un dialogo con le istituzioni e le realtà che operano in questo settore
Nella vostra Carta chiedete il salario minimo e l’applicazione del contratto federculture. Vi va di entrare nel dettaglio dell’importanza di questi punti?
Federica Pasini: La carta è stata scritta sulla base dei racconti delle persone che venivano alle assemblee, quindi il contenuto si basa sulle mancanze che abbiamo riscontrato e sui diritti che vengono sistematicamente negati a chi, purtroppo, lavora in questo settore in generale (ma la Biennale, appunto, non fa eccezione). Si tratta di diritti basilari, come il salario minimo, che purtroppo in Italia ancora non abbiamo ed è necessario, perché esistono dei contratti che prevedono dei salari davvero molto bassi. Vengono applicati soprattutto il contratto multiservizi, il contratto servizi fiduciari, in qualche caso, servizi ausiliari, che sono più o meno la stessa cosa. Parliamo sempre di salari sotto i 10€/ora. Nella Carta facciamo riferimento al contratto Federculture perché è il contratto giusto, è il contratto di settore che non viene mai applicato, o comunque lo applicano pochissime istituzioni e solitamente sempre ai livelli più alti, quindi ai dirigenti o ai conservatori, ai curatori, ma mai a chi svolge le mansioni al contatto con il pubblico.
I problemi del lavoro in Biennale
Un altro punto fondamentale è la riduzione delle esternalizzazioni.
F. P.: Sì, l’obiettivo è limitare l’esternalizzazione solo quando necessaria e, anche in quel caso, ovviamente, applicare i contratti corretti. Nella Carta si parla anche di lavoro autonomo coatto, che è solo un escamotage per non pagare contributi. E questo succede purtroppo in moltissimi istituti a Venezia. E poi ci sono veramente cose fondamentali come la pausa pranzo, le ferie, una serie di diritti fondamentali che molto spesso non vengono rispettati. Anche la sicurezza sul lavoro. Purtroppo, soprattutto per quanto riguarda la Biennale, ogni padiglione nazionale si gestisce da solo, non ci sono delle linee guida, dei regolamenti. Biennale non impone niente, anche perché sostiene di non poterlo fare, e quindi ogni padiglione nazionale gestisce autonomamente l’allestimento e il costo del lavoro. E ci sono le situazioni più disparate, ogni nazione fa come vuole, non rispettando la legge italiana per quanto riguarda sia gli inquadramenti dei lavoratori sia le norme di sicurezza. Questo è un po’ il segreto di Pulcinella, nel senso che tutti lo sanno, ma nessuno lo dice. Io non so sinceramente quale sia il grado di consapevolezza della Biennale, ma penso ci sia.
D. G.: Nella questione esternalizzazioni sta un po’ tutto il punto della questione, ed è il punto su cui poi il Biennale e le istituzioni se ne lavano le mani. Loro fanno i bandi, mettono le clausole, però poi chi è che va a controllare? Nessuno. E anche quando abbiamo portato all’attenzione di Biennale su queste questioni, la risposta è sempre stata che “è tutto quanto all’interno dei confini della legge, non siamo noi direttamente che ci occupiamo di queste cose”.
Quali sono nello specifico le problematiche legate alla Biennale?
F. P.: Per me il problema principale di Biennale è che l’istituzione ha i suoi dipendenti – che sono circa 150, assunti con contratti regolari, pagati il giusto – e poi c’è un sostrato di lavoratori e lavoratrici che mandano avanti la Biennale (anche per quanto riguarda tutti gli eventi collaterali i padiglioni nazionali), che non vengono tutelati direttamente dalla Biennale, ma che devono sottostare alle regole dei singoli organizzatori. E questo porta a una frammentazione, a una diversificazione degli inquadramenti, dei contratti, un trattamento diverso dei lavoratori in ogni singola situazione. Quindi c’è anche una deresponsabilizzazione da parte dell’istituzione che, nonostante sia una delle esposizioni d’arte contemporanea più importanti del mondo, riesce ad andare avanti grazie purtroppo allo sfruttamento della forza lavoro.
Fare rete per difendere i diritti dei lavoratori
Secondo voi quali sono le motivazioni che ostacolano la denuncia e il fare rete nel contesto specifico del settore culturale?
Irene Falson: Siccome in questo grande insieme si muovono così tanti agenti, è difficile per lavoratori giovani – che magari sono alla prima esperienza lavorativa post-università – far sistema. Anche perché il mondo dell’arte sembra un ambiente chiuso ed elitario, in cui mettersi a dire “io questa cosa non l’accetto” fa quasi pensare che stai perdendo delle possibilità. E poi c’è un’ignoranza di base rispetto ai contratti di lavoro. Io per prima mi sono trovata con questo contratto che non sapevo effettivamente leggere. Ed è difficile far sistema e parlare con lavoratori perché siamo tutti quanti con situazioni contrattuali diverse, con problematiche diverse, e tutto questo va a favore dell’istituzione che se ne lava ulteriormente le mani.
F. P.: Inoltre, nel settore culturale c’è un profondissimo problema di abuso di lavoro gratuito, che sia volontariato, che sia tirocinio non pagato. C’è una competizione al ribasso estrema, perché se c’è qualcuno che lavora gratis, ci sarà sempre gente che lavora a due euro l’ora, dal momento che il ground zero è proprio non essere pagati. E questo ha anche poi un impatto a livello sociale, perché si pensa che la cultura non sia un vero lavoro, ma un’occupazione da privilegiati che possono permetterti di studiare tutta la vita e a 40 anni magari raggiungere dei posti dirigenziali, oppure possono permetterti di lavorare gratuitamente perché tanto hanno le spalle coperte. Abbiamo anche un problema in termini di narrazione verso l’esterno.
D. G.: Però devo dire che negli ultimi anni, secondo me, sempre più persone si trovano nella situazione di dire “no, aspetta, questo non può essere giusto, quello che è successo a me non voglio che succeda a un’altra persona”. E devo dire che c’è molta spinta dalla nuova generazione. Infatti, ogni volta che facciamo un’assemblea ci sono sempre persone nuove. E c’è anche chi mi dice “io ormai so che finirò così per i prossimi due mesi, però poi voglio che questa roba non continui su qualcun altro”.
Sentite che da parte delle istituzioni e degli altri enti c’è collaborazione, una volontà di andare verso una direzione comune?
D. G.: La nostra idea è quella di presentare alle varie istituzioni la nostra carta, avere un incontro e confrontarci sui punti della carta e vedere se magari si possono migliorare le condizioni dei propri lavoratori. Qualche riscontro positivo l’abbiamo avuto, ad esempio con Palazzo Grassi. C’è stata una richiesta di miglioramento con gli aumenti di salario, ma anche del riconoscimento delle ore di formazione personale, ad esempio per lo studio che le guide portano avanti individualmente. Inizialmente la risposta è stata un po’ fredda, poi c’è stata una sorta di mediazione, e noi abbiamo facilitato un incontro tra l’istituzione e i lavoratori, che sono riusciti ad ottenere dei miglioramenti. Il riscontro per noi è positivo, soprattutto perché ha creato un caso, un precedente in cui una grande istituzione ha collaborato. Dall’altro lato, però, ci sono tutte le aziende che operano al di sotto. E nel modo in cui funzionano le cose – quindi tra esternalizzazioni, concessioni di padiglioni e quant’altro – hanno libertà per queste aziende di fare quello che vogliono. Quindi il punto della questione, secondo noi, sta nel cercare il dialogo con le istituzioni, ma soprattutto nello “scoperchiare” quello che è il metodo di lavoro di determinati attori che operano nel settore.
E per il futuro?
D.G.: Da una parte, sicuramente continueremo un lavoro di sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni. E dall’altra, invece, continueremo a monitorare e segnalare quel che avviene ad un livello un po’ più basso, che non è magari la grande istituzione, ma che però poi è quella che fa girare il sistema. Perché poi è lì, è in queste pieghe, è nello scarico delle responsabilità che si giocano i diritti dei lavoratori.
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