La speranza è che, almeno nelle prossime ore, sui campi di battaglia dell’Ucraina tacciano le armi. Kiev sembra non voler tendere la mano a Mosca sulla tregua, forse perché non si fida. Ammesso che questa ci sia e venga rispettata. Il presidente Vladimir Putin non poteva non prestare attenzione all’appello del Patriarca ortodosso Kirill. Non solo perché è stato proprio il capo della Chiesa ortodossa russa a sostenere questo conflitto, invitando addirittura i soldati a essere pronti a sacrificarsi per la Patria. Si tratta di un segno per la comunità internazionale, un gesto di buona volontà, teso a mettere Mosca in una luce positiva (cosa che non succede da un po’) e incolpare Kiev nel caso malaugurato in cui le cose dovessero andare male. Ma per parlare di pace è ancora presto.
Nella sua telefonata con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, due giorni fa, Putin ha ribadito di essere pronto a trattare con Zelensky, ma a patto che vengano riconosciute come russe le quattro regioni (Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia) annesse lo scorso settembre. Il problema è che non solo questi territori sono stati dichiarati soggetti federali, dopo referendum considerati una farsa da tutta la comunità internazionale. La Russia non controlla militarmente tutte le zone che vorrebbe controllare, perché sono state riconquistate dagli ucraini, intenzionati ad andare avanti con la controffensiva appena le condizioni climatiche lo consentiranno.
Ci sono poi i piani del presidente Putin e questi sono protetti dal più stretto riserbo, nonostante le voci che circolano facciano temere il peggio. Da settimane, si parla di una nuova, grande offensiva di terra, nella quale il Cremlino vorrebbe impiegare almeno mezzo milione di uomini, con fonti del Ministero della Difesa che parlano di un milione di soldati reclutati entro marzo. Una mobilitazione generale che non lascerebbe scampo a quei pochi che, fino a questo momento, sono riusciti a evitare la chiamata alle armi, anche perché in molte zone del Paese verrebbe imposta la legge marziale.
Per molti analisti, se questo dovesse succedere, sarebbe un vero e proprio punto di non ritorno, per la Russia ma non solo. Appare sempre più evidente che Mosca non possa vincere il conflitto. Ma una mobilitazione generale ufficializzerebbe quello che pensano in molti, ossia che l’operazione militare speciale contro l’Ucraina si sia definitivamente trasformata in una guerra di sterminio per cancellare il popolo e la cultura ucraina.
Una deriva che costringerebbe la comunità internazionale a comportarsi di conseguenza. Per questo l’attività diplomatica, ora che l’inverno ha rallentato le operazioni sul terreno, sta diventando sempre più sostenuta.
Recep Tayyip Erdogan, che in primavera affronterà un difficile test elettorale, ha bisogno di raggiungere un risultato diplomatico significativo anche per recuperare consenso in vista dei seggi. Ma da solo può fare poco. Serve lo sforzo di quei Paesi che, al momento, sono schierati con la Russia o mantengono una sorta di neutralità, che certo non aiuta il processo negoziale.
L’Iran sta continuando a fornire a Mosca i droni con i quali sta radendo al suolo abitazioni e infrastrutture civili.
E Pechino resta il vero punto di domanda. La Cina ha auspicato una conclusione diplomatica del conflitto, ma non ha fatto nulla per favorirla. Manda avanti l’Occidente, salvo poi attaccarlo e fomentare il disordine mondiale se la mediazione non dovesse essere raggiunta. Le prossime settimane saranno determinanti per capire se si potrà parlare di pace o se la guerra passerà il punto di non ritorno.
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