Guardavo oggi le immagini rimandate da La7 da Karkiv, da una stazione della metropolitana della città dove da oltre due mesi vivono centinaia di famiglie composte in prevalenza da donne, vecchi, bambini ed anche animali domestici. Oltre duecento per la precisione in quella stazione, secondo il giornalista sul campo, il quale aggiungeva, riferendo quanto gli stessi 'accampati' lì sotto gli avevano detto, che preferivano stare lì e non andare lontano unendosi ai milioni di altri rifugiati, perché volevano restare vicino alle loro case. Sì, restare vicino a quelle povere case che ancora davano loro la speranza di riprendere la vita, in futuro, quando questa dannata guerra sarà finita.
Le immagini delle città distrutte, quelle del sud est dell'Ucraina nel nostro caso - ma non solo quelle - della vita sottoterra di quelle povere famiglie, la volontà di resistere pur di poter rientrare appena terminata la guerra in quelle povere case mi hanno fatto venire in mente qualcosa di simile che poco più di dieci anni fa ho vissuto dopo il terremoto all'Aquila, dell'aprile 2009.
L'Aquila, la città nella quale ho insegnato per una trentina d'anni in Conservatorio, non la dimenticherò mai. Neanche a causa dei direttori del Conservatorio che si sono succeduti e che godono della mia totale disistima professionale. neppure loro riusciranno a cancellarne il ricordo sincero.
La prima visita, dopo il terremoto, mi lasciò letteralmente impietrito. Una città, con i suoi palazzi storici le sue magnifiche chiese, che non esisteva più. Ciò vale anche per il Conservatorio, nonostante che la parte più antica del complesso di Collemaggio fosse rimasta in piedi, ma inagibile. Nelle strade deserte l'unica voce era quella del vento, quando spirava naturalmente, altrimenti neanche quella. Non c'era anima viva; della vita precedente restava qualche panno appeso a fili fuori delle case. Me li ricordo ancora quegli indumenti, bianchi in un caso, che sventolavano a mò di bandiere per richiedere aiuto, ed indicare che per il momento, non per sempre, si erano arresi al 'mostro'- come tutti chiamavano il terremoto che era spuntato dalle viscere delle terra.
Non si può descrivere quale sensazione produca una città dopo un terremoto, anche in chi come me non abitava a L'Aquila. E perciò capisco bene, vedendo quelle immagini dell'Ucraina, cosa possa esser la vita di quei rifugiati nelle viscere della terra.
C'è qualche differenza fra i due disastri? Certamente. La prima è che laddove a L'Aquila è stata la natura a farsi sentire e semmai la stupidità umana e la mancata prevenzione ad ampliarne gli effetti di distruzione, in Ucraina è la follia di un uomo, assetato di potere che diventa assassino e 'terremota' città e città. E la seconda è che, dopo lo sciame sismico che certamente ebbe effetti ancora più devastanti sulla popolazione, all'Aquila tornò una certa calma, o rassegnazione, mentre in Ucraina fino a quando al pazzo dittatore non viene impedito di nuocere, può sempre accadere che una bomba od un missile piova in testa anche a chi si è, fino a quel momento, salvato, nascondendosi nel sottosuolo.
Ma l'una e l'altra situazione, al limite della sopportazione umana, non fanno perdere a molti la speranza che una volta finita la tragedia si possa tornare a casa, o in quello che della casa, con le povere cose, è rimasto. Ed è per questo molti non vogliono allontanarsi da casa, preferendo vivere nelle viscere della terra.
A tal proposito, mi è rimasto nella memoria e mai più lo dimenticherò quel che mi diceva una insegnante dell'Aquila, la cui casa era stata distrutta dal terremoto, meglio semidistrutta ma inagibile, e che era andata a vivere con tutta la famiglia a casa dei genitori lontana ma non troppo da casa sua.
Lei, piangendo ogni volta, mi spiegava che per non recidere del tutto il filo che la legava a casa sua, molto spesso faceva il numero del telefono fisso di casa e il segnale che giungeva dall'apparecchio di quella che un tempo era a casa sua, bastava a farle dire e sperare che un giorno vi sarebbe tornata. Non so se poi è tornata lì o in un'altra casa; ma quel telefono perfettamente funzionante di casa servì per qualche mese ad alimentare la speranza che la vita sarebbe ricominciata.
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