domenica 27 giugno 2021

Riccardo Muti si confessa ad Aldo Cazzullo ( da Corriere della Sera)

 Maestro Muti, qual è il suo primo ricordo?

«La guerra: mio padre in divisa da ufficiale medico. Poi, nel 1946, una gita in carrozza a Castel del Monte. Partimmo da Molfetta, viaggiammo tutta la notte. All’alba il cocchiere Nicola aprì la tendina, e apparve quella corona di pietra. Rimasi stupefatto. Da allora sono ossessionato da Federico II, ho la casa piena di libri su di lui. Ho anche comprato un pezzetto di terra lì vicino, con qualche piccolo trullo, che chiamano casedde, dove a maggio tra gli ulivi fioriscono le orchidee selvatiche. Spero di passare in contemplazione del castello questi ultimi anni che mi restano». 

Lei ne compie ottanta tra un mese

 «E mi sono stancato della vita». 

Perché dice questo?  

«Perché è un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: “Tutto declina”». 

Insisto: perché dice questo?  

«Perché ho avuto la fortuna di crescere negli anni 50, di frequentare il liceo di Molfetta dove aveva studiato Salvemini, con professori non severi; severissimi. Ricordo un’interrogazione di latino alle medie. L’insegnante mi chiese: “Pluit aqua”; che caso è aqua? Anziché ablativo, risposi: nominativo. Mi afferrò per le orecchie e mi scosse come la corda di una campana. Grazie a quel professore, non ho più sbagliato una citazione in latino. Oggi lo arresterebbero». 

Rimpiange le punizioni corporali?  

«Certo che no. Rimpiango la serietà. Lo spirito con cui Federico II fece scolpire sulla porta di Capua, sotto il busto di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, il motto: “Intrent securi qui quaerunt vivere puri”; entrino sicuri coloro che intendono vivere onestamente. Questa è la politica dell’immigrazione e dell’integrazione che servirebbe». 

Non riconosce più neanche il suo mestiere? 

 «Purtroppo no. La direzione d’orchestra è spesso diventata una professione di comodo. Sovente i giovani arrivano a dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all’inizio dell’attività, basandosi sull’efficienza del gesto, talora della gesticolazione». 

Gesticolazione? 

«Toscanini diceva che le braccia sono l’estensione della mente. Oggi molti direttori d’orchestra usano il podio per gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline a ciò che vede e meno a ciò che sente».

Chi? Faccia i nomi. 

 «No». I nomi.  «Non voglio polemiche personali: farei il gioco dei promotori di se stessi. Il mio maestro, Antonino Votto, diceva che il direttore doveva aver respirato la polvere del palcoscenico. Invece le orchestre, i cori, i cantanti lamentano una mancanza sempre più evidente di informazioni musicali e drammaturgiche da parte dei direttori. Non si fanno neppure più prove serie». 

Neanche le prove?  

«Le prove di sala, con il direttore al pianoforte che prepara la compagnia di canto, diminuiscono sempre più, in favore di settimane e settimane di prove date spesso a registi ignari di musica, che non soltanto non sanno leggere una partitura, ma sempre più sovente inventano storie che vanno contro il discorso musicale. Nel carteggio con Kandinsky, Schoenberg sottolinea che, se la regia e la scenografia disturbano la musica, sono sbagliate. E certo Schoenberg non era un reazionario». 

Forse lei sì.  

«Non credo. Sono il direttore che ha fatto più produzioni, nove dagli anni 70, insieme con Ronconi, che certo non era un reazionario, soprattutto a quell’epoca. Sono ancora sotto l’influenza di Strehler, che non soltanto conosceva la musica ed era in grado di leggere una partitura, ma perseguiva il Bello: non come fatto estetico, come necessità della vera arte. Le mie produzioni con Strehler — Le Nozze di Figaro, il Don Giovanni, il Falstaff— mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per tutta la vita e mi hanno insegnato molto. Ecco perché talvolta, forse esagerando, dico che sono stanco della vita. Penso di non appartenere più a un mondo che sta capovolgendo del tutto quei principi di cultura, di etica nell’arte con cui sono cresciuto e che i miei insegnanti al liceo e al conservatorio mi hanno comunicato». 

Ha qualche rimpianto?  

«Sì. Proprio adesso che ho finito di dirigere Aida in forma di concerto all’Arena, il mio rimpianto è non aver potuto fare Aida con Strehler, com’era nei nostri piani». 

Come sarebbe stata?

  «Senza elefanti. Giorgio credeva in un’Aida dove il trionfo fosse solo nella musica, non in quel faraonismo che ha caratterizzato le produzioni di Aida dovunque nel mondo, fino a diventare il simbolo stesso di Aida, nuocendo alla vera essenza dell’opera. Che è costruita su una delle partiture più raffinate e delicate di Verdi. E questo non vale solo per Aida». 

Cosa intende dire?  

«Non vorrei essere l’uccello del malaugurio; ma il costo esorbitante di scenografie e costumi, accanto alla scarsa competenza e autorevolezza dei direttori d’orchestra che — con le dovute eccezioni — lasciano i cantanti senza guida, mi preoccupano sul futuro dell’opera. L’Italia è piena di teatri del ’700 e dell’800 ancora chiusi. L’ho detto a Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre: ci sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro economico delle famiglie. Dobbiamo fare molte cose, se vogliamo che il nostro patrimonio operistico, il più eseguito al mondo, non sia considerato occasione di piacevole intrattenimento ma fonte di educazione e cultura, come le opere di Mozart, Wagner, Strauss. Verdi non è zum-pa-pa!». 

Com’erano davvero i suoi rapporti con Abbado?  

«Tra noi c’è stata sempre ammirazione reciproca. Hanno voluto montare una rivalità tipo Callas-Tebaldi o Coppi-Bartali: tutto falso. Quando sono andato al conservatorio di Milano, Abbado era già in carriera: abbiamo avuto rare occasioni di incontrarci, ma sempre cordiali». 

E con Pavarotti? 

 «Ho cominciato a lavorare con lui nel 1969, con i Puritani alla Rai di Roma. Poi abbiamo avuto momenti di frizione...». 

Per quale motivo? 

 «Fatti tecnici. Incomprensioni musicali. Tramutate in una grande amicizia. Devo a Pavarotti una delle più belle, se non la più bella voce della seconda metà del Novecento. Lui mi ha regalato cose meravigliose: un Pagliacci registrato in disco a Filadelfia, un Requiem di Verdi alla Scala, e soprattutto il Don Carlo scaligero, dove Pavarotti in particolare nel finale dà una lezione di tecnica vocale, di fraseggio perfetto, davvero di grande ispirazione. Sulle parole “ma lassù ci vedremo in un mondo migliore” riconosco la sua generosità. Diversi anni prima che morisse, mia moglie e io lo invitammo a Forlì a un concerto di beneficienza per una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’America. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Lo accompagnai per tutta la serata al pianoforte, di fronte a settemila persone. Un gesto che non potrò mai dimenticare». 

Qual è l’ultimo ricordo che ha di lui?  

«La salma nel Duomo di Modena, la piazza che risuona del famoso “Vincerò...”. Io avrei preferito che fosse messo il finale del Don Carlo. Non solo per il significato delle parole, ma anche per la lezione di canto, per la sottolineatura di un aspetto della vocalità di Pavarotti non trionfalistica ma intima e delicata». 

Lei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore? 

«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero ci sia tanta luce; mi basta che non ci sia la metempsicosi. Non ho voglia di rinascere, tanto meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è più che sufficiente». 

Crede in Dio?  

«Ho avuto una formazione cattolica. Ho ammirato molto papa Ratzinger, anche come magnifico musicista. Non credo nei santini di Gesù biondo. Dentro di noi c’è un’energia cosmica che ci sopravvive, perché è divina. Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione che il suo corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso, l’energia vitale. Sento che l’universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti». 

Chi ha dato la migliore definizione della musica? 

 «Dante. Paradiso, canto XIV: “E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno”. La musica è rapimento, non comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c’è niente da comprendere. Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note». 

Come ha passato il lockdown?  

«A studiare. La Missa Solemnis di Beethoven. La mia prima partitura è del 1970. Ci lavoro da più di mezzo secolo, ma non ho mai osato dirigerla. Lo farò ad agosto a Salisburgo. È la Cappella Sistina della musica: la sola idea di accostarla mi ha sempre dato grande timore. Ci sono dettagli di importanza enorme. Al Miserere nobis Beethoven premette un “O”, che presuppone un interlocutore. Beethoven ha sentito che l’invocazione era rivolta a Qualcuno. Pare un dettaglio, ma apre un mondo. Significa che un Essere superiore esiste». 

Quindi non è stato un brutto lockdown

 «A parte lo studio, è stato orribile. La disumanizzazione si è fatta ancora più profonda. La mancanza di rapporti umani è terrificante. Entri al ristorante e vedi al tavolo cinque persone tutte chine sul loro smartphone... Io non lo posseggo e non lo voglio. Me ne hanno dovuto dare uno, per entrare in Giappone, ma non sono riuscito ad accenderlo. La tv avrebbe dovuto approfittare del lockdown per fare trasmissioni educative. Invece, a parte qualche bel documentario, siamo stati invasi da virologi, da sedicenti “scienziati”. Per me scienziato era Guglielmo Marconi!». 

Non ama i talk-show?  

«Riesco a seguire un contrappunto in otto parti musicali che si intersecano una con l’altra, ma non riesco a capire due persone che si parlano una sull’altra. Creano disarmonia, cacofonia; mentre otto linee musicali una diversa dall’altra devono concorrere al raggiungimento dell’armonia. La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani». 

Lei è di destra o di sinistra? 

«Né l’uno né l’altro. Sono tra quelli che tentano di dare indicazioni utili. A Firenze negli anni 70 ero amico di molti comunisti, tra cui Paolo Barile, il costituzionalista; ma siccome usavo spesso parole come “patria” e mi piaceva eseguire l’inno di Mameli, qualcuno sentì odore di idee di destra. Io sono nato uomo libero e tale rimango. Sono cresciuto con dettami salveminiani, socialista non bolscevico. Non mi sono mai affiliato a una congrega».

 C’è un eccesso di politicamente corretto anche nella musica?  

«Con il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero in galera. Definiscono Bach, Beethoven, Schubert “musica colonialista”: come si fa? Schubert poi era una persona dolcissima... C’è un movimento secondo cui, nel preparare una stagione musicale, dovrebbe esserci un equilibrio tra uomini, donne, colori di pelle diversi, transgender, in modo che tutte le questioni sociali, etniche, genetiche siano rappresentate. Lo trovo molto strano. La scelta va fatta in base al valore e al talento. Senza discriminazioni, in un senso o nell’altro. Posso parlare perché la maggior parte dei “Composers-in-Residence” che abbiamo ospitato in questi dieci anni a Chicago sono donne».

 È vero che da bambino pensavano che lei non avesse talento?  

«Papà mi regalò a Natale un violino. Piansi; volevo un fucile con il tappo. Dopo due mesi di vani tentativi di leggere i solfeggi, papà disse: “Il piccolo Riccardo non è portato per la musica”. Mamma concluse: “Proviamo ancora un mese”. D’un tratto imparai a solfeggiare. Ma l’incontro decisivo fu con Nino Rota».

 Il compositore dei film di Fellini.  

«Diedi con lui a Bari l’esame del quinto (anno del, ndr) corso di pianoforte da privatista: mi diede 10 e lode in tutte le prove. Così decisi di iscrivermi al conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio prendevo la corriera per Bari». 

Per essere stanco della vita, lei è sempre in giro. 

 «Credo nei viaggi dell’amicizia e della pace. Non lavori per il successo, la quantità di applausi e articoli; lo fai perché capisci che la nostra professione è una missione. Ho diretto il primo concerto a Sarajevo dopo i bombardamenti, il Va’ pensiero a New York nel buco lasciato dalle Torri Gemelle abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un coro di bambini meraviglioso: avevano studiato il Va’ pensiero con una pronuncia assolutamente perfetta, mi commuovo ancora se ci penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che parla ai sordi... Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E dire che le radici della musica mondiale sono in Italia: Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti...». 

Ha paura della morte?  

«No. Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a vedere i fuochi fatui. Ho conosciuto l’ultima prefica, Giustina: raccontava i pregi del morto, disteso sul letto nell’unica stanza della casa, la porta aperta sulla strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio ardito… Un mondo semplice e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le dico che appartengo a un’altra epoca. Oggi il mondo va così veloce, travolge tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda umanità...». 

Quindi non teme la fine?  

«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti. Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli animali». 

Quali animali?  

«Il cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi rosa... E noi diamo del cane e dell’asino come se fossero insulti». 

Come vorrebbe i suoi funerali?  

«Scherzosamente dico che lascerò l’indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso incisioni, rigorosamente dirette da me». Perché?  «Non perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c’è la probabilità che si apra la bara... (Muti sorride). C’è una cosa però su cui sono serissimo». 

Quale? 

 «Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c’era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l’anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi». 

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