Una targa in metallo attaccata sulla porta con la scritta “FuturBalla” ci promette meraviglie di cui abbiamo subito conferma una volta dentro: siamo a Casa Balla, nel quartiere romano Delle Vittorie, un luogo a dir poco speciale dove il torinese Giacomo Balla (1871-1958), dopo essersi trasferito nella Capitale e aver vissuto per qualche anno in un edificio conventuale ai Parioli, con vista su Villa Borghese – visse e lavorò fino alla sua morte.
Anonimo era ed è il palazzo che la ospita come la via (Oslavia), ma i circa 200 metri quadri con terrazzo che ci si aprono davanti, hanno un che incredibile.
Ad accoglierci, all’ingresso della casa romana di Giacomo Balla, c’è un poster che ricorda una mostra parigina a cui partecipò l’artista nel 1921 nella storica Galérie Reinnardt a Place Vendôme. Con lui c’erano Marinetti e altri “Peintres Futuristes Italiens”, anche Depero, il suo allievo più importante con aveva firmato cinque anni prima il manifesto sulla Ricostruzione futurista dell’Universo, volto a realizzare una fusione totale tra le arti, le tecniche e i generi “per ricostruire l’universo, rallegrandolo”.
Così è stato e ne abbiamo conferma visitando questa abitazione in cui quell’odore della creolina che la caratterizzava, oggi non c’è più, sostituito dalla luce e da un’aria nuova e pulita. Protetta dal 2004 da un vincolo di tutela, è stata sottoposta a lavori di restauro e manutenzione solo dal 2018, ma dal 18 giugno fino al 21 novembre prossimo (la prenotazione è obbligatoria sul sito maxxiart.it) sarà aperta al pubblico in coincidenza dell’anniversario che celebra i 150 anni dalla nascita del pittore e teorico futurista.
Trovare uno spazio bianco sulle pareti è impossibile, perché i colori, i segni e le inconfondibili figure di Balla hanno il sopravvento come gli oggetti che quando non li ricordano, li evocano. Un’arte unica e totalizzante la sua a cui si dedicò fino alla fine dei suoi giorni assieme alla moglie Elisa e alle due figlie Elica e Luce, anch’esse pittrici, che hanno abitato e custodito l’abitazione fino agli anni Novanta. La loro era una vera e propria officina-laboratorio in cui la vita e l’arte si incontravano confondendosi e unendosi al meglio, producendo tutta una serie di oggetti e dipinti che ritroviamo nelle stanze, ad esempio nello spazioso soggiorno c’è la versione italiana del docufilm Balla et le Futurisme con cui Jack Clemente vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1972. Proseguendo, colpisce davvero il celebre studiolo rosso come la stanza con letto a castello delle due figlie, ma più di ogni altra cosa è il bagno che resta nella memoria con quelle piastrelle celesti dai motivi verdi, gialli e arancioni che riprendono le tele o che ritroviamo anche nei piatti della cucina dove una tavola apparecchiata è posta vicino a quella che chiamavano “la stanza dei rumori”, praticamente uno stanzino da dove ascoltavano i loro vicini. Interessante o inquietante? Difficile poter commentare senza esserci stati allora. Particolari davvero sono poi le quattro sedie presenti, quasi un simbolo come tutto ciò che i Balla facevano, un ‘segnale’ che ci ricorda che lì dentro il mondo non era ammesso, perché erano loro a crearlo.
“Vivevano e lavoravano nello stesso ambiente e il loro universo travalicava la proiezione della tela, andava oltre la cornice, invadeva i muri, le suppellettili, le ceramiche e i vestiti”, ci dice Domitilla Dardi, curatrice con Bartolomeo Pietromarchi del progetto gemellare - “Casa Balla. Dalla casa all’universo e ritorno” - di riapertura della casa e della mostra a lui dedicata al Museo Maxxi di Roma. “Da studentessa ho sempre sentito parlare di questa casa, ma quando ci sono entrata poco prima del primo lockdown, non potevo credere che fosse tutto intatto - un contenitore bloccato nel tempo e immortalato da questa stasi – e non potevo sospettare la ricchezza di questo effimero, fatto di poco fisicamente e molto di pensiero”. “Balla – aggiunge – è stato molto più progettuale di altre avanguardie successive e non è certo un caso se lui, il Futurismo e Depero sono stati la base per i maestri successivi degli anni ‘60 e ‘70 , come Mendini, Branzi e altri”.
Una vera e propria modernità la sua, che parlava di superamento delle barriere disciplinari, di contaminazioni e commistioni concettuali, di convivenza tra linguaggio figurativo e astratto, vivendo senza soluzione di continuità la propria arte rendendo ancora più unico il loro progetto diffuso. “Se per la casa – conclude – abbiamo pensato di farla tornare a respirare ridando una gioia e un dinamismo a un posto che ospitò molti momenti di effervescenza, considerando gli abitanti che l’abitavano - dentro il museo abbiamo portato una serie di arredi, disegni e bozzetti usciti proprio da quella abitazione e che - grazie a grandi collezionisti, su tutti, la collezione Biagiotti Cigna - sono stati poi raggruppati e restituiti in un corpus unico”.
Quegli arazzi, quei disegni e quei mobili, quindi, continuano a dialogare nella Galleria 5 del museo progettato da Zaha Hadid con otto nuove produzioni di Ila Bêka e Louise Lemoine, Carlo Benvenuto, Alex Cecchetti, Jim Lambie, Emiliano Maggi, Leonardo Sonnoli, Space Popular e Cassina con Patricia Urquiola. Insieme hanno sperimentato e portato avanti le idee di Balla, in maniera libera, come faceva lui, andando oltre il concetto del lusso legato alla materia prima, ma considerando come unico lusso il progetto, l’idea.
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