Quale splendido scrittore sia Pierre Boulez è inutile ripetere: il fascino di una sintassi ondulosa, piena di sottili capziosità, di calcolate tergiversazioni, di finte giravolte, non ha probabilmente pari nella letteratura musicale di oggi: anche in questo ambito, così esposto agli equivoci, il maestro può ragionevolmente considerarsi come l’erede legittimo di una tradizione illustre: gli articoli di Debussy, le lettere (e i rari scritti) di Ravel.
Si è letto proprio su questa rivista ( Piano Time, ndr) un piccolo ricordo di Bruno Maderna, ‘Quell’elefante leggerissimo’, dettato in fretta, e sembra impossibile, e tradotto in italiano: non siamo dunque nella possibilità di tentare un minuscolo assaggio di Stilkritik. E tuttavia, ve n’è a sufficienza per scorgere, leggera come lo scomparso del titolo, e di ben altra grazia, la mano di un eccezionale virtuoso del fioretto.
Boulez, naturalmente, trascura anzitutto l’ovvio: le qualità del didatta, così pronto ad aiutare gli esordienti, dello studioso, dell’animatore, cui tanti compositori oggi celebri devono più di un’indicazione, o di un avvio. Non dice del pari nulla sulle sue più che discutibili doti di direttore: mediocre senza remissione, come ognun sa, ma musicalissimo, sempre capace poi di improvvise illuminazioni: oggi massacrando Monteverdi (e orribilmente orchestrandolo), domani malmenando Mozart, e poi accendendo di improvvisi bagliori una pagina di Mahler, o di Webern, da lasciarci sbalorditi e sconvolti.
Boulez punta subito sul compositore. Nello spazio di poche righe, ci ricorda con implacabile garbo quanto fosse naturalmente dotato: «era un grandissimo improvvisatore». Ma la via verso la composizione è acerrima, e la fatica non sembrava addirsi al collega. L’attività di direttore d’orchestra gli ha tolto «tempo prezioso»: inutile osservare, a questo punto, che le buone prediche vanno bene anche quando il pulpito è sospetto. (Siamo ovviamente carichi di simpatia per lo svillaneggiato padre Zappata, che poi razzolava male: forse che, quando leggiamo Bossuet, ci domandiamo se poi mettesse in pratica i suoi dolcissimi precetti?)
L’impazienza, la stessa «curiosità» del musicista veneziano traducevano una incapacità a riflettere sulle ragioni formali di fondo, sì da concedergli pagine vivacissime, financo geniali ma da impedirgli poi di stringerle nella sperata unità. In lui, dannatamente, tout ne se tient pas. Anche le modalità di scrittura intervengono pesantemente. Certo i documenti conservati nell’Archivio della Fondazione Paul Sacher saranno «preziosissimi», ma subito s’aggiunge: «pur nella loro frammentarietà». Gli interpreti così non sono in grado, magari, di rendere un pensiero che non si è compiutamente definito: non si arriva a dichiarare che si tratta di brogliacci, stracarichi di segni di varia mano, ma si nota come «ciascuna opera comporti problemi talvolta insormontabili, di costruzione e di interpretazione». Un meno abile avrebbe semplicemente detto che gli abbozzi venivano poi, in vita dell’autore, consegnati alle estrose manipolazioni del momento ma, per le esecuzioni odierne, si tratta di ricominciare ad inventare. Non mancherà chi poi sappia ricordare tutto. Sono cose non nuove: Glazunov e Rimskij Korsakov, ai loro bei giorni, stesero l’ouverture del Knjaz’ Igor di (?) Borodin; avendogliela sentita suonare più volte al pianoforte.
Ultima amara osservazione: la morte precoce, come in ogni dérèglement che si rispetti «troppo facilmente sedotto dall’aiuto bacchico», come gli scriveva, tre anni prima, l’amico Nono, intensamente sottolineando.
Leggiamo questa affettuosa lettera in un volume, ‘Scritti su Bruno Maderna’, edito da Suvini Zerboni, il suo editore. Contiene analisi egregiamente condotte e una gran copia di informazioni, che sono naturalmente benvenute. Quando uscì il primo libro critico, quello brillante ed entusiastico di Massimo Mila, vi leggemmo, accanto ad episodi di un gusto costernante (le risate dei due davanti al ‘Quintetto op. 26’ di Schoenberg), anche un grazioso cenno di consenso: Mila prendeva garbatamente le distanze di fronte all’esclusione da noi compiuta in un libro del ’69: «quando stava appena per cominciare l’esplosione dell’ultimo Maderna»: esso libro «rispecchia l’opinione che tutti avevamo allora di lui». Ci sarebbe facile, a vent’anni di distanza, ricambiare sì amabile inchino, e inneggiare all’esplosione. Ma non ci sentiamo proprio di farlo: le ultime cose sono anche più velleitarie e sconnesse (senza stare a ripetere che contengono ancora e sempre momenti esaltanti), la disponibilità leggendaria verso tutto svela la mancanza di centro: qualcosa come i famosi «effetti senza causa». Ricordiamo bene la prima darmstadtiana del suo ‘Concerto per pianoforte e orchestra’: figuriamoci, con David Tudor alla tastiera. Gli dei benigni ci avevano dato come vicino Theodor Adorno che ascoltò con l’attenzione abituale. Poi, alla fine: «Dommage, car il connait tous les trucs».
Mario Bortolotto
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