martedì 11 febbraio 2020

Allerta! Non permettiamo che Zaki faccia la stessa tragica fine di Regeni. La politica, sull'esempio della stampa, si mobiliti ( dal CORRIERE DELLA SERA)

Sei croci, due Cristi sanguinanti, un’icona che lacrima, un San Giorgio che infilza il Drago, un Nazareno formato vetrata, l’arazzo d’una Vergine assorta, sette ceri, due Marie sofferenti. 
«Siamo cristiani. Che cosa possiamo fare? Preghiamo». L’altro calvario di Patrick Zaki, al quinto giorno di passione nelle segrete della polizia di Mansura, crocifisso come un ladrone di libertà, il vero supplizio è il pensiero che va costante dalla sua cella a questo tinello verde-niente-speranza in Omar Ibn el Khattab Street, una ventina di minuti dal lungodelta, pieno d’immagini celesti e d’incubi terreni. 

Al primo piano a sinistra si squadernano gli album delle vecchie foto come si fa per i lutti, si ricordano gli anni belli tutt’insieme al Cairo, l’inutile laurea in farmacia di Zaki all’università tedesca e poi la curiosità per le scienze umane che l’ha portato a Bologna, il sogno un giorno d’insegnare in università. Si prova a reggere il dolore: «Più che per sé, mio figlio è preoccupato per noi — racconta l’ingegner George Michel, 55 anni, direttore vendite d’una fabbrica di macchinari — . Ha paura di quel che stiamo passando. Di quanto sta soffrendo sua madre…». In mano un rotolo di carta igienica per strapparne fazzoletti, incurvata su una sedia e in un silenzio dove le parole diventano singhiozzo, Hala Sobhy Abdelmalek, 52 anni, racconta il suo Kuki — «lo chiamiamo così» — e rifà memoria della vita di prima: «Ogni suo istante è un segno per me. Dall’Italia, ci sentivamo anche tre volte al giorno. Lui a raccontarmi tutto, io ad ascoltarlo. Gli sono sempre stata addosso, sono fatta così. Kuki ci rideva, quando studiava a casa: mamma, uffa, mi sembra d’essere all’asilo…». 


Adesso, George e Hala non riescono nemmeno a immaginarsi le notti là dentro: «Ce l’hanno fatto vedere domenica. Lo rivediamo giovedì. Solo dieci minuti in parlatorio, assieme agli altri detenuti, presente un agente di polizia. Gli abbiamo portato acqua, patatine, pane, succo, formaggi, tutta roba in contenitori di plastica, niente tonno perché è nelle scatole di metallo. Lui non fuma, ma gli abbiamo portato le sigarette: in carcere, sono una moneta di scambio». Una sofferenza: «La sua, la nostra. Sul fisico non ha molti segni, ma onestamente non sappiamo dire che cosa sia successo davvero: non ha potuto darci i dettagli di quel che gli hanno fatto. E’ bene che sia vivo, ma poi? E’ un ragazzo forte, però questa situazione è pesante, sa che cosa rischia, è psicologicamente provato». L’hanno torturato coi cavi elettrici… «La nostra tortura è quel che sta succedendo. Quest’attesa, senza sapere che cosa ne faranno. Se non c’è nulla a suo carico, che lo facciano uscire e basta!». 


Non è facile. Attenti a non sbagliare. I genitori di Zaki pesano i sospiri, sanno che tutto verrà letto e spiato, danno in rete un comunicato scarno e accettano d’incontrare solo la stampa italiana, «coi media egiziani non vogliamo parlare»: nel tinello ogni dichiarazione è un consulto con l’avvocato, con un amico di famiglia, con la figlia Murise, 24 anni e un posto in banca, l’unica a sapere l’inglese. Nulla da dire sulle tv governative che accusano Zaki per le sue ricerche bolognesi nel mondo omosex, un reato da queste parti: «Vogliono solo sfruttare la situazione e parlano d i cose che non sanno…». Meglio chiarire che il ragazzo non è un incosciente: «Difende le sue libere opinioni, ma conosce bene i limiti. Chiaro, eravamo un po’ preoccupati del suo impegno civile, sapete come sono i giovani, hanno la loro mentalità. Però, quando vedevamo che amava quel che faceva, lo lasciavamo libero». Sempre da ripetere che «siamo una famiglia pacifica, nostro figlio non ha fatto nulla di sbagliato e non è mai stato una minaccia o un pericolo per nessuno, anzi: ha sostenuto e aiutato molta gente». 

Che cosa sia successo in aeroporto, un mistero: «C’era una denuncia di settembre e lui non ne sapeva niente. L’hanno fermato per quello, per i post su Facebook». E per le sue domande sul caso Regeni: «Gli hanno sequestrato tutto: documenti, occhiali, vestiti, passaporto, telefonino, laptop, tesserino universitario. L’hanno interrogato illegalmente per trenta ore. speranza è questa sua forza ».

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