I carri armati russi sono a poche centinaia di metri dall’auditorium della Berliner Philharmoniker: due per la precisione, con i cannoni che puntano verso il traffico. C’è persino qualche garofano fresco vicino ai cingoli, ai piedi del milite con la stella rossa che domina il Sowjetisches Ehrenmal, il memoriale ai soldati sovietici che morirono per la liberazione di Berlino nel 1945. Ora che con la guerra in Ucraina assume un aspetto sinistro quanto rimanda a Mosca, serve anche un presidio della polizia accanto al grandioso monumento nei pressi della porta di Brandeburgo. E occorrono transenne e agenti davanti all’ambasciata russa lungo l’elegante viale Unter den Linden. Intorno, all’ingresso di ogni museo o palazzo istituzionale, sventola almeno una bandiera del Paese attaccato. Nulla di tutto ciò entra nella grande sala dei Berliner, anche se sui leggii si apre una partitura che è russa fin nelle viscere: La dama di picche di Cajkovskij. Per di più proposta da artisti (a maggioranza) russi. Solo diciotto minuti di applausi segnano le due serate “zariste” nella capitale tedesca. Non le polemiche che hanno accompagnato il concerto per la pace a Berlino di qualche settimana fa, disertato dall’ambasciatore di Kiev perché lo aveva accusato di essere troppo filorusso. Non la malizia per la «rinuncia negoziata» di Anna Netrenko al Festival di Pasqua a Baden-Baden, di cui la celebre filarmonica tedesca è il fulcro, o il “pericolo contestazioni” al gala (come qualcuno paventa anche al teatro alla Scala nel recital del soprano il 27 maggio). Non le coccarde ucraine sugli abiti dei Berliner o le bandiere in sala, quasi sia necessario purificare ciò che ha una minima parvenza russa.
No, non si è trasformata in un “caso politico” l’esecuzione in forma di concerto del capolavoro ludopatico del genio di Votkinsk. Nella Berlino dichiaratamente pro-Ucraina i riflettori possono accendersi sulla cultura russa senza essere tacciati di putinismo. È un’apertura mentale che si ri- trova, ad esempio, nel Jüdisches Museum, il più grande museo ebraico d’Europa, dove un’intera sezione è dedicata a Richard Wagner che nei suoi scritti ha propagandato concezioni antisemite ma aveva come direttore di fiducia a Bayreuth l’ebreo Hermann Levi e avrebbe conquistato con la sua “musica dell’avvenire” Gustav Mahler o Arnold Schönberg, entrambi d’origine ebraica. Ecco, ascoltando i Berliner che si immergono in Cajkovskij, nessuno si scandalizza quando il coro dei bambini esalta la guerra contro i «nemici della Russia» (alla Scala erano scomparsi i fucilini dalle mani dei piccoli, per non essere sconvenienti) o quando tornano a più riprese i canti popolari della Russia profonda che il compositore tardo-romantico nobilita.
E non c’è neppure bisogno di patenti di “purezza” per i protagonisti: perché sono russe le due principali star femminili, il soprano Elena Stikhina (che ha preso il posto della connazionale Elena Bezgodkova sostituita «per motivi di salute) e il mezzosoprano Aigul Akhmetshina; russi i baritoni Vladislav Sulimsky e Boris Pinkhasovich; e russo, o meglio della Siberia, l’amato direttore della Filarmonica, Kirill Petrenko, il re Mida della bacchetta che tramuta in oro ogni composizione e che a Berlino raccontano così: «Di solito ogni generazione ha un direttore di cui possiamo dire che c’è solo lui o quasi. È successo con Herbert von Karajan, Carlos Kleiber o Claudio Abbado, ciascuno a modo suo. Oggi tocca a Petrenko». Certo, lui aveva preso subito le distanze dal Cremlino dopo l’invasione dell’Ucraina definendo le scelte belliche «una pugnalata al mondo pacifico e un attacco alle arti che uniscono al di là di ogni confine». Petrenko avrebbe potuto cancellare il titolo compromettente. Non lo ha fatto. Meglio accogliere ieri sera l’Orchestra sinfonica di Kiev «per sostenerla nel momento in cui teme per la sua stessa sopravvivenza», spiegano i Berliner. E il coraggio “scorretto” della Filarmonica si è trasformato in un trionfo.
È una Dama di picche che svela i suoi segreti quella diretta da Petrenko. Prima di tutto perché è eseguita da un’orchestra sinfonica che ha la straordinaria capacità di esaltare i dettagli. E poi perché, a differenza del suo predecessore, Simon Rattle, direttore che di tanto in tanto devia verso titoli lirici, il maestro di Omsk è un direttore di teatro in grado di illuminare ogni angolo della partitura tanto da avere l’impressione di essere davanti a una sorta di colonna sonora plastica ed eloquente in cui la dimensione scenografica può essere un orpello. Nelle tre ore d’opera Petrenko rivela una rara attitudine all’equilibrio dove la malinconia non è mai lacrimosa e la tragedia è così intensa che non trabocca mai oltre il dovuto. Elena Stikhina è una Liza scolpita dalla sua massa vocale penetrante che racconta nel profondo la passione per lo sciagurato ufficiale russo Herman e il tormento che la porterà al suicidio. Altrettanto toccante la Polina di Aigul Akhmetshina. Eccellenti Vladislav Sulimsky (il conte Tomskij) e Boris Pinkhasovich (il principe Eleckij). Non è russo ma ha studiato a Mosca il tenore Arsen Soghomonyan – viene dall’Armenia – nei panni del militare ossessionato dal gioco che compensa il suo timbro non troppo gradevole con un’interpretazione emozionante; ed è tedesca Doris Soffel, una contessa che a 73 anni conserva una voce di tutto rispetto. Se va trovato un difetto, esso sta nel coro: è preciso, ben preparato, ma non coinvolgente. Ci fosse stato il coro della Scala...
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