E' arrivata a Verona, all'Arena, dopo una serie di delusioni subite soprattutto negli Stati Uniti dove si è fidata di un sedicente agente teatrale, Eddie Bagarozy. Sembra complessata da una grassezza inusitata anche per un soprano dell'epoca e dal non aver ancora sfondato in quel 1947, a 24 anni.
Maria Callas - nome d'arte dall'originale, impronunciabile greco Kalogeropoulos - punta molto su quella scrittura per la "Gioconda" di Amilcare Ponchielli. Da lì i primi successi, l'incontro col futuro marito Giovan Battista Meneghini, il lancio verso il successo… Tutte balle. Faccio entrare in scena un grande dell'organizzazione musicale, il maestro Francesco Siciliani, consulente della Rai per la musica, direttore artistico del Maggio e della Fenice, poi a Santa Cecilia. Che una sera, dopo teatro, a cena mi racconta: "Una mattina mi telefona Tullio Serafin, lei lo sa, grande direttore e intenditore di voci, il quale mi dice: Francesco, c'è un soprano greco-americano che ha cantato con me all'Arena, ha avuto successo, sì, ma non tanto. Per cui sta per ripartire in classe turistica per tornare a New York da una madre che detesta. Per me ha una gran voce, una "vociaccia", vorrei tanto che tu l'ascoltassi".
Siciliani, intrigato, gli dice subito di sì e gli si presenta questa giovane donna monumentale. Gli canta un paio di arie che però non lo esaltano.
"Con Elvira De Hidalgo…"
"Ah, grande soprano di coloratura, quindi conoscerà il repertorio belcantistico italiano"
"Certamente"
"Mi faccia sentire qualcosa allora..."
"Le canterò 'Ah, rendetemi la speme' dai Puritani di Bellini "
"Poso le mani sul pianoforte, si mette a cantare e io non capisco letteralmente più niente, le lacrime non mi consentono di leggere lo spartito, suono a memoria. Beh, alla fine l'ho scritturata per otto opere!".
Questa è la vera storia della fortuna di Maria Callas. Senza Serafin e senza Siciliani, sarebbe probabilmente tornata a New York e chissà se avrebbe trovato così presto la strada dei maggiori teatri. La "vociaccia" di cui aveva parlato Serafin - che poi la dirigerà, al Teatro alla Scala, in memorabili edizioni belliniane - era una voce scura, unica, capace di volare dai toni bassi del contralto al sopracuto del soprano lirico. Non è tutto.
"La Maria", come venne poi chiamata dai suoi entusiasti ammiratori, cantava sempre meglio, ma non sapeva recitare. E' un'altra testimonianza diretta che ho avuto da un grande mezzosoprano che spesso ha cantato con lei, Fedora Barbieri, triestina di origine. La quale, in giuria al concorso Callas della Rai per voci verdiane nel 2001, a Busseto e poi a Parma, sedeva vicino a me. La tenevo accanto perché si lasciava andare a espressioni piuttosto colorite, da triestina disinibita, che arrivavano fino alle concorrenti già spaventatissime.
In un intervallo mi disse: "La Maria non sapeva proprio cosa fosse recitare. Cantammo insieme in un Parsifal alla Fenice di Venezia dirette da Serafin e alla fine del primo atto io le dissi in modo schietto: Ma Maria impara un po' a recitare! Sembri un vigile che dirige il traffico, un braccio di qua, uno di là...”. E mimava ridendo quei movimenti goffi. Ebbene Maria Callas diventò in breve tempo anche una grande attrice. Non solo fece spaziare il proprio repertorio dal Rossini serio ("Armida", inimitabile) e buffo ("Barbiere" e "Turco in Italia") al Bellini, al Donizetti, al Verdi più drammatico (la Lady in "Macbeth", con una terribilità di accenti travolgente), al Puccini della tragica "Tosca".
Ma crebbe ad interprete credibile di questi personaggi tanto diversi. Fu grazie a se stessa e grazie ai registi coi quali lavorò, soprattutto a Luchino Visconti che la plasmò nella rivoluzionaria "Traviata" della Scala diretta da Carlo Maria Giulini. Io, cresciuto nel loggione della Scala degli anni '50, potei ammirarla soltanto nella "Sonnambula" di Bellini, dove lei si muoveva come in sogno, con voce lunare, nello splendido "Ah, non credea mirarti".
Era così miope che Visconti doveva metterle in terra dei fili bianchi per guidarla o spargere un forte profumo dove doveva sedersi. Emozioni indimenticabili. "Era una vera musicologa", mi ripeteva un suo grande amico ed estimatore, Teodoro Celli, critico del "Messaggero". "Quando ancora non faceva vita mondana, si metteva a letto presto con una liseuse sulle spalle, inforcava gli occhiali e studiava le partiture leggendole all'impronta come pochi".
La sua stagione d'oro durò solo una dozzina d'anni. "Con quella formidabile estensione di voce non poteva durare tanto", commentò Celli alla notizia della sua morte. "Sola, abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Parigi". Era commosso fino alle lacrime. "L'ho sentita sere fa, malinconica". Il resto è silenzio.
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