lunedì 11 marzo 2019

Un Don Giovanni con i GIGANTI. Ve lo avevamo preannunciato, e lo abbiamo letto in questa recensione. Leggete con attenzione per convincervene ( www.GB Opera.it)

Con un nuovo allestimento di Don Giovanni si è inaugurata ufficialmente la stagione lirica 2019 di Fondazione Arena presso il Teatro Filarmonico di Verona. È già miracoloso che questa produzione esista, giacché era stato annunciato un atteso e raroMefistofele, in omaggio al centenario di Boito appena conclusosi, ma varie peripezie sindacali e limitazioni burocratico-ministeriali hanno impedito l’andata in scena dell’opera-kolossal. In poche settimane è nato quindi lo spettacolo visto lo scorso 29 gennaio con cast alternativo alla première, con la regia del già previsto Enrico Stinchelli, noto conduttore radiofonico. L’allestimento scenico è minimal, con cornici di porte, di quadri e tulle che salgono e scendono all’occorrenza: quasi tutto l’apparato visivo è affidato alle proiezioni di Ezio Antonelli e del suo team, su indicazioni del regista romano. Oltre a vari cantanti giovani, giovanissimi o comunque alla prima performance veronese, anche il direttore Renato Balsadonna era al suo debutto. L’ammirazione per le maestranze areniane, per la rapida realizzazione, e la curiosità per i numerosi nuovi nomi in cartellone hanno lasciato il posto a un po’ di perplessità sulle qualità artistiche dello spettacolo in sé.  Questo Don Giovanni in definitiva, purtroppo, non è uno spettacolo indimenticabile né particolarmente riuscito. Fortunatamente non è pretenzioso come quello visto a Bologna solo un mese fa nonostante l’importazione illustre, e non è volutamente brutto come certo Regie-Theater provocatorio e avulso dalla musica e dal testo. Nasce dalla conoscenza approfondita di Mozart e della tradizione, nonché da un grande rispetto per artisti e tecnici, ma non riesce a svolgere un cammino coerente né a sviluppare le idee pur presenti: scorre infatti -a tratti neanche troppo, ma percolpe altrui- come una sfilata di intuizioni e immagini giustapposte, che vanno dalla suggestione didascalica al kitsch più inverecondo. I personaggi e i loro rapporti sono delineati secondo tradizione, lasciati un po’ soli in gesti e movimenti a portare a spasso i sontuosi e coloratissimi costumi di Maurizio Millenotti, concepiti per l’allestimento areniano di Zeffirelli (che non era privo di kitsch ma era d’estetica ben più rifinita) e sicuramente condizionanti la deriva di colori saturi del materiale video onnipresente ed invadente. Non basta infatti ammiccare all’architettura palladiana (Losey) o ai tarocchi o alle lune enormi e moltiplicate (Forman) per farsi perdonare quelle piogge di petali o quel mazzo di carte che in dissolvenza diventa un ventaglio che in dissolvenza diventa un’infinita coda di pavone… Completano il tutto foreste di foglie mosse dal vento o tramonti luminosissimi e “smarmellati” come nei più qualunque degli screensaver. Come accennato, qualche intuizione c’è, però non adeguatamente sviluppata, per esempio nel finale: il protagonista agli inferi con le diavolesse (e una Satanella in ali di pipistrello) gode a fare il burattinaio degli altri personaggi, mossi dai suoi fili lunghi e invisibili (ovviamente il buon gusto latita nel farlo giganteggiare in video, indipendentemente dal fatto che si tratta di Andrea Mastroni -protagonista delle altre recite). L’inizio di entrambi gli atti vede correre in scena sei/otto bambini che aprono il sipario e mostrano (nella sinfonia) il “dietro le quinte” con le vere maestranze della Fondazione: spunto meta-teatrale abbandonato subito, eccetto per far entrare qua e là gli artisti dalla platea e salire in palcoscenico da passerelle sul golfo mistico. Questi sono solo esempi di idee non malvagie in sé, funzionanti altrove in produzioni anche recenti, ma qui accostate troppo disinvoltamente per dar vita ad una visione originale o quantomeno compiuta. A peggiorare le cose, laddove in scena non si faceva teatro, non soccorreva la direzione musicale, giacché la bacchetta (o talora la nuda mano) di Renato Balsadonna era attenta a cercare raffinate sfumature di fraseggio ed un suono asciutto al passo con la filologia moderna ma perdeva, nella ricerca del particolare, una visione d’assieme e quel passo (teatrale appunto) necessario per guidare e avvincere per oltre tre ore. L’orchestra trova spesso i colori richiesti dal Maestro ma qua e là fatica ad attaccare in modo compatto e pulito. Buona la prova del Coro diretto da Vito LombardiComplici i tempi lenti impressi al secondo atto, sia Donna Anna che Donna Elvira, dopo un primo atto in crescendo, arrivano alla conclusione un po’ stremate (colpo mortale, anche per il pubblico, le arie finali). Sylvia Schwartzparte stridula e proseguendo si destreggia sempre meglio nelle agilità ma nel complesso sembra forse un po’ leggera (non solo di voce) per dare vita a Donna Anna. Valentina Boi ha colore più scuro efraseggio a tratti più incisivo, di rara frequenza nel repertorio mozartiano (in cui debuttava); domina la parte con una sicurezza che nella seconda metà dell’opera è un po’ mancata. Attenzione e consensi hanno arriso particolarmente al debutto di Cristin Arsenova: il giovanissimo soprano proveniente dal Conservatorio cittadino si è ben destreggiata nella parte di Zerlina, con vocalità calda, fraseggio appropriato e in generale una prestazione prudente ma stilisticamente di buon gusto, ottimo segno per un interprete di domani. Ben cantato e misurato è anche il suo Masetto, dal timbro pieno di Davide Giangregorio, nonché il Don Ottavio tutt’altro che noioso di Antonio Poli, sensibilmente interpretato sempre e di ottima resa nelle due arie. Una conferma graditissima è la verve di Biagio Pizzuti: il giovane salernitano canta e muove il suo Leporello con arguzia e misura sia musicale che scenica, qualità che risaltano ancora di più laddove potrebbe “scaccolare” e -grazie al cielo- non lo fa, risultando comunque divertente ed emettendo sempre suoni belli e nitidi. Pierluigi Dilengite, nel ruolo del titolo, riesce solo in parte: seducente quando trova eleganti mezzevoci, più sgraziato quando spiega la voce, timbricamente interessante ma indurita alquanto da un’emissione più volte ingolata. Il Commendatore di Geroge Andguladze è un basso dal timbro ricco e scuro al punto giusto, per una volta da antologia se non fosse per la prova microfono (l’uom di sasso era infatti amplificato) udibilissima poco prima del suo leggendario ingresso a cena. Il folto pubblico (cosa un tempo rara nelle recite infrasettimanali) comunque ha accolto positivamente l’opera e tutti i suoi interpreti, applaudendo in particolar modo Arsenova, Poli e Pizzuti. Foto Ennevi per Fondazione Arena

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