Nell’ultima settimana, inoltre, la riflessione si è arricchita con la pubblicazione dell’appello al Capo dello Stato sottoscritto da trenta costituzionalisti, dove si manifesta preoccupazione per il rischio di marginalizzazione del ruolo del Parlamento nella funzione di tutela degli interessi nazionali e di garante dell’unità del Paese in un contesto di sviluppo equilibrato e solidale del regionalismo. Le ulteriori forme di autonomia – si sostiene – non possono riguardare la mera volontà espressa in un accordo tra Governo e Regione interessata, avendo conseguenze sul piano della forma di Stato e dell’assetto complessivo del regionalismo italiano.
Nell’attuale situazione, però, non è escluso che ci si possa trovare presto di fronte a altri momenti in cui la soluzione di problemi cruciali per il Paese si riduce a confusi patteggiamenti tra le forze politiche di governo. Questo può essere evitato solo garantendo un processo trasparente di decisione, attivando un’azione di coinvolgimento dell’interesse pubblico e avviando un reale e partecipato confronto istituzionale e politico.
Senza entrare nel merito dei profili costituzionali e finanziari, si può provare a mettere in fila tre ordini di problemi da affrontare.
C’è innanzitutto la problematica che riguarda il delicato rapporto tra autonomie, tutela degli interessi nazionali e garanzia dei fondamenti democratici di uguaglianza dei diritti: il nodo imprescindibile del rispetto delle funzioni del Parlamento relative all’esercizio dei poteri di indirizzo e di esame (con possibilità di emendamenti) delle proposte regionali. Come e quando verrà coinvolto il Parlamento? Un tema, questo, che meriterebbe tutta l’attenzione delle forze politiche, anche per favorire un rilancio sistemico del regionalismo in Italia. Tanti elementi oggettivi spingerebbero in questa direzione: l’impatto differenziato della crisi economica sui territori; le ripercussioni della nuova ondata di progresso tecnologico sulle strutture dell’economia e della società; le tematiche della sostenibilità e la nuova valenza delle variabili ambientali; l’esigenza di redistribuzione del reddito a fronte delle crescenti disparità sociali e territoriali.
Un secondo nodo di problemi riguarda il tema della copertura finanziaria corrispondente alle richieste di autonomia in esame. Qui non si sa se la copertura, come dicono gli interessati, sia a saldo zero, se vada a carico della fiscalità generale, se sarà pagata dalle regioni più povere. Sembra, intanto, riconosciuta l’incostituzionalità della pratica del residuo fiscale che lega l’esercizio dell’autonomia all’ammontare del gettito fiscale del territorio e fa dipendere la somministrazione dei vari servizi, anche di quelli essenziali come istruzione e salute, dalla concentrazione delle ricchezze individuali realizzata sul territorio stesso. Ma non basta. Non si può ignorare che per quantificare correttamente le risorse bisogna attivare la prescritta predeterminazione dei Fabbisogni standard e del Livello Essenziale delle Prestazioni (LEP); passaggi purtroppo ancora non affrontati nelle sedi istituzionali preposte e che richiedono tempi non brevi. Come procedere, allora? Come evitare il rischio di ridimensionare il potere unificante dello Stato, di accentuare le differenze di cittadinanza, di alterare l’equilibrio della finanza pubblica, di creare difficoltà alla formazione del bilancio dello Stato nella sua dimensione e nelle sue componenti?
Un terzo ordine di problemi è relativo al significato che assumerebbe l’autonomia regionale per il tipo e numero di competenze richieste. Solo per fare un esempio non completo: la Regione Veneto “…vuole legiferare in materia di tutela dell’ambiente, di tutela e valorizzazione dei beni culturali, di governo del territorio, sulla ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione, su collocamento e servizi per l’impiego, sui rapporti internazionali e con l’Unione Europea (…) rivendica il trasferimento al demanio regionale delle strade nazionali e la loro programmazione, esecuzione e manutenzione, (…) le funzioni autorizzative relative alla costruzione e all’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica, elettrodotti, gasdotti, e oleodotti…” (Viesti, p. 43). È chiaro che qui non si parla di autonomia, ma di totale autogoverno. Si rompe l’unitarietà d’impostazione e gestione della politica economica nazionale e del governo del mercato del lavoro, si compromette la programmazione degli investimenti nei tempi e nell’esecuzione, si perdono le esigenze di interdipendenza territoriale e settoriale. Nell’illusione di potersi inserire da soli, non come sistema articolato, nell’economia mondiale contemporanea costruita sulle catene globali del valore.
Il disegno sotteso all’autonomia regionale differenziata non è una prospettiva accettabile. Ma non si può contrastarlo rivendicando il mantenimento dello status quo, discutibile sotto tanti aspetti. Bisogna, invece, lavorare per un rilancio del regionalismo efficiente e democratico, e per non lasciare ai giovani un futuro fondato sulla cultura della divisione.
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