Un elzeviro sul Corriere di oggi ricorda che Daniele Del Giudice, da molti anni ormai prigioniero, in laguna, della sua malattia, compie 70 anni.
Noi vogliamo rivolgergli un presente di compleanno ripubblicando un testo che scrisse per una nostra rivista, il mensile Piano Time, all'indomani del successo del suo primo romanzo, Lo stadio di Wimbledon (Einaudi), uscito nel 1983.
Brevemente vi raccontiamo come lo ottenemmo.
Ci conoscevamo dalla fine degli anni Settanta, perché nel biennio 78-79 scrivevamo per Paese Sera, dove lui lavorava, e da dove andammo via, anzi fummo mandati via, senza ragione naturalmente, da quell'analfabeta di Giuseppe Fiori, arrivato alla direzione del giornale in crisi, e al quale della musica ovviamente non fotteva nulla e perciò noi fummo fra le le prime teste a cadere.
In quei due anni di lavoro da collaboratore incontrammo spesso Daniele che, se ricordiamo bene, aveva la responsabilità delle pagine culturali per le quali spesso scrivevamo.
L'uscita di Piano Time, di cui eravamo direttore, e il successo editoriale del suo primo romanzo, quasi coincisero. Per questa ragione gli telefonammo, lo andammo a trovare nella sua casa dalle parti di Piazza Farnese / Via Monserrato ( in Piazza de' Ricci, al piano terra di un palazzo nobiliare austero, con enormi finestroni, a mezz'aria, protette da robuste inferriate) e gli chiedemmo di scrivere per questa curiosa rubrica ( una lettera indirizzata al pianoforte, che cominciava sempre con il classico 'Caro pianoforte') che nei primi numeri aveva già ospitato scritti di Franca Valeri, Vittorio Taviani, Massimo Grillandi, Giovanni Spadolini e di molti altri, fra gli scrittori, ospiterà nei numeri successivi: Moravia, Maraini, Montefoschi, De Giorgi...
Daniele acconsenti, e il suo Caro pianoforte uscì sul numero di novembre della rivista. Ancora grazie e buon compleanno, Daniele ( P.A.)
Caro Pianoforte
Quasi mai, nel pianoforte, mi rendo conto di quanto è distante il suono dalle mani. Con gli strumenti a fiato c'è ancora una contiguità, addirittura la forma della bocca, e anche la nota del violino è lunga quanto il braccio. Nel lento distacco della musica dal corpo è il pianoforte il vero avvenimento: per la prima volta, suonando, sto seduto di fronte al suono, e in fondo sono soltanto il più vicino degli ascoltatori.
A me sembrava facile perché ogni nota ha un posto. Anzi, nel pianoforte, ogni nota è un posto, non un punto; e poiché il suono che non abbia già il suo posto nella tastiera non esiste, tutti gli altri sono contemporaneamente possibili e reali, quindi individuali.
Nel violino o nella tromba non sarei mai riuscito a vedere le note: il fatto che non esistano senza le dita, e dunque la loro totale virtualità in base alla diversa posizione su una sola corda o su un unico condotto d'aria, rende per me quegli strumenti sintetici e abbreviati, forse per questo portatili.
Il pianoforte appartiene invece alla stessa famiglia cui appartengono il ragionamento, i caratteri tipografici o la lingua tedesca: associazione e meccanica sempre più complessa di elementi visibili, tutti predisposti. Molto più sfuggenti erano per me le ragioni del mito, come del resto quelle del flauto. Non immaginavo che il carattere esplicito del pianoforte spostasse semplicemente la soglia da cui comincia l'elaborazione e la fantasia; però mi piaceva e mi piace anche adesso, che proprio lo strumento più separato dal corpo, più demoltiplicato e più convenzionale ( ultimo nato nell'orchestra, il più moderno, e l'unico di colore nero) assommasse in sé la maggiore gamma armonica, ed arrivasse per una via tutta sua, meccanica e combinatoria, a quelle sorgenti oscure, profondamente irrazionali e passionali, cui attingono gli altri strumenti più intuitivi.
Del resto il pianoforte è il solo che consente nella stessa battuta musicale di dire e negare, di dire e commentare, di decidere per una possibilità e simultaneamente per un'altra possibilità appena diversa, e variata. Le mani vanno ciascuna per proprio conto, e anche i piedi, che servono a prolungare una nota come la luce di una stella morta, anticipando in questa azione combinata la guida delle automobili e degli aerei.
Per le sue ante e i suoi sportelli era l'armadio della musica. Ancora oggi la cosa più stupefacente è il tempo che rimane chiuso, invisibile nell'abitudine come tutti gli altri mobili, fino ai momenti più dolorosi, in cui il ritmo interiore cessa e bisogna precipitarsi a produrre quello esterno.
Daniele Del Giudice
Nessun commento:
Posta un commento