Milena Gabanelli assomiglia alla sua libreria milanese. Dentro ci trovi pensosi tomi di politica internazionale e il Tapiro d’oro, saggi di urbanistica e la statuetta di Marge Simpson. La differenza è che sugli scaffali brilla di più l’anima pop, mentre nella Gabanelli prevale la serietà: l’ironia scorre sotterranea, e si esprime a guizzi. L’intervista, fissata in una casa che è a due passi dalla “bottega” (il Corriere della Sera, su cui dal 2018 tiene la rubrica Dataroom), ha un tema caldo: Report, il programma che ha ideato, allevato e consegnato a Sigfrido Ranucci, è sotto assedio. Il centrodestra vorrebbe chiuderlo, la nuova Rai non sembra troppo disposta a difenderlo – video
Sono tempi difficili. «Ma prevedibili. Qualunque conduttore di un programma d’inchiesta che, come fa giustamente Report, spara ad alzo zero mette in conto che cerchino di fargli terra bruciata intorno».
Avveniva anche con lei. «È sempre stato così. Nel 1997, già dopo la prima puntata, mi dissero: “Ah, durerete poco”. Ci occupammo dell’amalgama dentario, poi soppresso dai dentisti per la sua tossicità: ci fu una levata di scudi generale, e fioccarono i primi pronostici di chiusura. Sigfrido ha le spalle larghe, ci sentiamo abbastanza spesso: è abituato a lavorare e a combattere 24 ore su 24».
Ci spiega perché è importante che Report non venga cancellato? «Un servizio pubblico semplicemente non può non avere un programma d’inchieste: Report non è un talk, che sono tanti e producono soprattutto chiacchiere. Report fa un lavoro di indagine su documenti e testimonianze, denuncia il malaffare e la corruzione. Non è un mestiere semplice e non sono tanti i giornalisti che hanno voglia di rischiare su due fronti: quello delle minacce personali e quello delle querele».
Lei ne ha ricevute parecchie. «Cinque o sei non sono ancora chiuse. Chiedono sempre milioni di euro, cifre che hanno un solo obiettivo: intimidire. Questi contenziosi difficilmente possono essere sostenuti da un editore privato. Se li può “permettere” solo il servizio pubblico. Per quel che mi riguarda in 20 anni ho avuto una sola condanna, per violazione della privacy».
L’idea di Forza Italia è di togliere al programma la tutela legale: la Rai non pagherebbe più gli eventuali danni, gli autori delle inchieste risponderebbero col proprio patrimonio. «Per i primi 10 anni non abbiamo avuto nessuna tutela legale. In quel periodo l’operatore telefonico H3G mi citò in giudizio per 137 milioni di euro: ho trascorso 8 anni sotto quella tagliola. Si trattava di una lite temeraria, ma come si conclude lo scopri solo alla fine (e H3G venne condannata a pagare le mie spese legali)».
Report è davvero in pericolo? «Sì, perché a Rai 3 oggi non ci sono più direttori con spirito di servizio e capaci di proteggere un brand. La Rai, come le democrazie, ha i suoi anticorpi: il governo in carica influenza e influisce, ma ci sono sempre stati, in viale Mazzini, dei punti di riferimento in grado di preservare la missione del servizio pubblico. Ora mi sembra tutto molto più fragile, e questo svuota la più grande industria culturale del Paese. La impoveriscono buttandoci dentro persone cui non viene chiesto di produrre qualità, ma solo consenso e quieto vivere. Intendiamoci: la Rai è sempre stata lottizzata, ma c’era il senso del limite… Dovevi almeno saper fare il tuo mestiere. Ora no».
Ranucci è stato sentito in Commissione vigilanza. A lei non era mai successo. «Stava per capitarmi sei anni fa, quando venni assunta come vicedirettore per la costruzione del sito unico di news della Rai. Dovevo essere audìta da Fico, che poi sparì, perché i consiglieri si chiedevano: “La Gabanelli cosa ci sta a fare?”».
Cosa ci stava a fare? «Dovevo far confluire nel sito il lavoro di 1.700 giornalisti. Quando fu tutto pronto, il Cda disse che non poteva varare una nuova testata, perché ce ne erano già troppe. La verità è che se hai un solo sito, non lo puoi lottizzare. Per questo non si fa».
A lei proposero la condirezione di Rainews 24 con Antonio Di Bella. «E la delega a un sito che non c’era. Mi dimisi un quarto d’ora dopo».
A quanti soldi rinunciò? «Non lo so. Il contratto non l’ho nemmeno visto, ma avrebbe migliorato quello da vicedirettore: 150mila euro l’anno. Mio marito, che fa il prof di musica in una scuola media, non era contento. Mi disse: “Per una volta che ti pagano per non far niente…”».
In gioventù ha scritto un libro su Brigitte Bardot. «Una filmografia per i suoi 50 anni. La incontrai dalla sua antiquaria, a Saint-Tropez: mi caricò sulla Mehari e mi portò a casa sua. Era bellissima e sgradevole. I suoi cani mi leccavano la faccia, lei, invece, mi parlava e guardava dall’altra parte».
Tornando a Report: si è pentita di aver lasciato? «No, perché fu una scelta maturata nel tempo e dopo 20 anni pensavo di non aver più nulla da dare e da dire. A 60 anni suonati mi pareva giusto lasciar spazio a energie nuove, e anch’io avevo voglia di sperimentare un format diverso, rivolto alle piazze virtuali dove si formano e informano le generazioni più giovani. Una scelta masochista: sto lavorando più adesso per Dataroom che a Report».
Qual è l’inchiesta a cui è rimasta più legata? «Forse quella che consentì di ritrovare i quadri di Calisto Tanzi. La fece Sigfrido. Era a Parma, mi telefonò dal taxi per dirmi che nel processo per il Crac della Parmalat non era uscito niente di nuovo. Il tassista sentì la conversazione, collegò Sigfrido a Report e lo mise sulla strada giusta. Era l’autista che aveva spostato i quadri di Tanzi. Vede a cosa serve Report? Anche a fare giustizia: con la vendita di quei dipinti sono stati pagati molti creditori».
Nel 2016, sempre a Report, stilò un piano per risolvere la questione dei migranti. «È ancora lì, tale e quale. La geografia ci condanna a essere l’hotspot di Europa, e allora trasformiamo questa condanna in un’opportunità: costruiamo un sistema di accoglienza degno di questo nome utilizzando gli spazi pubblici che stanno andando in malora (vedi le caserme dismesse), con personale adeguato per definire in sei mesi chi ha diritto a restare e chi no. Nel frattempo obblighiamo i migranti a frequentare i corsi di lingua, formazione, educazione alle regole europee. Ci abbiamo lavorato un anno su quel progetto, e poi lo abbiamo sottoposto all’Unione europea, che sentenziò: “Se il governo italiano lo fa suo e ce lo presenta, lo finanziamo”. Sa quale fu il commento di Renzi?. “Bene, ci vada la Gabanelli a chiedere i soldi a Bruxelles”».
È vero che ha venduto il marchio Report alla Rai? «No, l’ho regalato.Nel 2002 doveva uscire per Sperling&Kupfer un libro col marchio Report in copertina. L’ufficio legale mi disse di andare a registrarlo, ma io non avevo tempo. Soprattutto ho pensato che senza i soldi della Rai, Report sarebbe rimasto una bella idea confinata nella mia testa. E quindi era giusto che fosse patrimonio di Viale Mazzini».
È ancora di questa idea? «Sì. Ma mi creda: Report ce la farà, è pieno di anticorpi».
Lo sa che sulla stanza di Ranucci a Report c’è ancora la targhetta col suo nome? «Non lo sapevo. Ho rapporti affettuosi con i miei colleghi, ma in Rai non ho più messo piede».
Alessandro Penna
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