Con la firma del nuovo patto di stabilità si chiude la fase “emergenziale” che aveva spinto l’Unione Europea a sospendere Maastricht e a varare l’ambizioso programma Next Generation EU (da cui è poi derivato il Pnrr). Il nuovo sistema definisce le regole di bilancio che i singoli Paesi saranno chiamati a rispettare nei prossimi anni. Frutto di un difficile compromesso, l’accordo rimane prigioniero di una contraddizione di fondo che bisognerà cercare di disinnescare.
Da un lato, ci sono le buone ragioni dei cosiddetti Paesi frugali, che da sempre insistono sulla necessità di avere bilanci solidi per evitare che l’indebitamento di nazioni come l’Italia (sorvolando sulle ragioni che ci hanno portato qui) mettano a rischio la stabilità dell’intera economia europea. Non si può non riconoscere la sensatezza di questa posizione, che richiama a un dato di realtà: al di là dei trucchi contabili, il debito indica il fatto che una comunità politica vive al di sopra delle proprie possibilità. Se si vuole fare parte dell’Unione, ci si deve assumere le obbligazioni che essa comporta.
Dall’altro lato, ci sono le giuste ambizioni della Ue, che da anni si vuole qualificare per un modello di sviluppo sostenibile e inclusivo. Ma, nella fase storica che stiamo vivendo, ciò comporta realizzare un impegnativo percorso di cambiamento attorno ai due temi della sostenibilità e della digitalizzazione. Percorso che richiede ingenti investimenti finanziari. Soprattutto, se si vogliono contenere i costi umani e sociali che esso comporterà.
Da qui il problema: in una cornice di vincolo di bilancio restrittivo come quello delineato dal nuovo patto di stabilità, da dove si prenderanno le risorse necessarie per il cambiamento auspicato? L’Europa - le sue imprese e i suoi cittadini - rischia di ritrovarsi in un “doppio legame” - termine introdotto dallo studioso britannico Gregory Bateson per indicare quella situazione in cui, trovandosi davanti a due messaggi tra loro contraddittori, l’azione si blocca, creando uno stato di tensione senza soluzione che può sfociare nella schizofrenia.
Nel caso della Ue, il doppio legame sta nel dare indicazioni restrittive in tema di vincolo di bilancio e contemporaneamente nel sollecitare la trasformazione nella direzione della transizione ecologica, tenendo conto della inclusione sociale. Per fare due esempi concreti, l’annuncio del passaggio alla mobilità elettrica dal 2035 comporta un imponente rinnovamento del parco auto (oltre che una profonda ristrutturazione della filiera produttiva) che concretamente si traduce in un costo che non tutti sono in condizione di sostenere (salvo generose sovvenzioni pubbliche); e la stessa cosa vale per il programma di efficientamento energetico delle abitazioni private che prevede l’adeguamento alla classe energetica D e il divieto di utilizzo di combustibili fossili con un percorso da definire ma entro il 2050 (la stima per l’Italia è di almeno 2 milioni di case interessate).
Il rischio è che questo doppio legame spinga l’Europa in una contraddizione sempre più stringente: esasperando la tensione nell’Unione tra Paesi più ricchi e quelli più indebitati; e accentuando i solchi già profondi della disuguaglianza sociale interna. Con gli inevitabili effetti politici a livello comunitario e nazionale. Per non finire in questa trappola, l’Unione sarà chiamata ad affrontare il vero nodo che si nasconde nella delicata fase di transizione nella quale ci troviamo. Nodo che ha a che fare con le grandissime risorse finanziarie disponibili in Europa, ma che devono essere più decisamente orientate al sostegno del progetto di trasformazione che la Ue intende perseguire. Liberandole dalle spire dei circuiti della speculazione mondiale.
Come ha più volte ricordato l’economista Mariana Mazzucato, il prossimo ciclo di crescita economica dovrà essere trainato, più che dai consumi individuali, da una potente ventata di investimenti, pubblici e privati. Necessari per creare quei “beni” che possono davvero creare una crescita sostenibile e inclusiva. Ma andare in questa direzione implica la volontà di mettere in discussione i rapporti di potere che ancora oggi sono dominanti. Con una finanza speculativa che spadroneggia estraendo risorse dalle comunità, le quali poi si trovano nell’impossibilità di tenere insieme le esigenze di innovazione con quelle dell’inclusione.
Aldilà del banale calcolo elettorale di rimandare di qualche anno le restrizioni sul bilancio, la strada scelta in questi giorni è una via di mezzo che non scioglie i nodi di fondo e che, anzi, rischia di spingere l’Europa verso una divaricazione insostenibile. Non è con le furbizie tattiche né con i vecchi schemi di pensiero che si avanza verso il futuro. L’Italia e l’Europa hanno bisogno, oggi più che mai, di coraggio e di visione.
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