Sappiamo che ogni giorno vengono sdoganate 20 milioni di mascherine in arrivo da Cina, India, Sri Lanka, che il decreto del 17 marzo autorizza l’importazione in deroga alle norme vigenti, quindi può entrare materiale senza certificazione Ce, e che l’Agenzia delle dogane può bloccarlo quando non è chiaro il destinatario, ma non può più fare le analisi di conformità. È richiesta solo l’autocertificazione del produttore, e se poi quella partita non è «sicura», valla a ripescare.
Qualche importatore ha chiesto una valutazione del prodotto finito acquistato in Cina al Politecnico di Milano. L’esito: la maggior parte è porcheria. A testarle ci pensa la Centrale acquisti lombarda (Aria spa).
Lo stesso decreto invita le aziende italiane a riconvertire la produzione in deroga alle norme vigenti, rispettando però rigidi criteri di biocompatibilità e di performance (filtraggio fino al 98%). In tante si sono date da fare, a partire dai test sui materiali, che eseguono enti accreditati, o dal Politecnico di Milano, incaricato dalla Regione per quel che riguarda le mascherine chirurgiche.
Al Politecnico si sono presentati in 1.700, sottoposti ai test 600 prototipi: solo 10 avevano requisiti di sicurezza, il resto era cotone senza nessuna capacità filtrante. Molti hanno abbandonato. Ma intanto quelle aziende che hanno fatto investimenti, ottenuto la certificazione dei test, inviato l’autocertificazione all’Istituto superiore di sanità, sono ancora in attesa di conoscere se il protocollo seguito è corretto o meno. Alcune hanno buttato il cuore oltre l’ostacolo e cominciato a produrre, a loro rischio e pericolo.
Dalla Sapi di Reggio Emilia, ad altre 7 aziende accompagnate alla riconversione dal Tecnopolo di Mirandola; dalla Fater che fa pannolini e ha avviato una linea di produzione su richiesta della Protezione civile, alla Fippi, su pressione di Assolombarda. La Fippi è stata guidata dal Politecnico nella scelta del materiale giusto, ha superato i test di laboratorio, avviato la produzione di 900.000 mascherine chirurgiche al giorno due settimane fa. Oggi ne ha in stock 4 milioni. Ebbene queste aziende non possono ancora commercializzarle perché l’Istituto superiore di sanità, che per decreto deve rispondere entro 3 giorni, non lo ha ancora fatto. La procedura semplificata alla fine si arena ancora una volta nella confusione romana.
E poi, quando l’emergenza sarà finita cosa succederà? Tutte le aziende che hanno investito in una riconversione per aiutare il Paese o perché erano in crisi, si troveranno di nuovo a competere con quei mercati che producono a 10 centesimi quello che qui costa 50? Bisogna pensarci adesso a mantenere dentro al Paese la produzione di forniture strategiche, prevedendo che nelle gare pubbliche una quota sia riservata ai produttori italiani. Altrimenti da questa tragedia non avremo imparato nulla.
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