Il segno dello scarpone del poliziotto sul fianco sinistro, sotto l’ascella: l’impronta del carrarmato — sulla pelle si distinguono chiaramente il tacco col resto della suola — si è fatta livida. È con quella pedata che gli hanno rotto una costola. Le due dita della mano sinistra, indice e medio, sono state frantumate a colpi di manganello. Stefano in quel momento era a terra, rannicchiato, con le mani cercava di proteggersi il capo da un diluvio di bastonate. «E meno male», spiega il primario del pronto soccorso, Paolo Cremonesi: «Altrimenti gli avrebbero sfondato la testa a bastonate». Il resto del corpo è tutto una piaga, che ora tende al viola: sulle reni, la spalla sinistra, la scapola destra, il petto, una coscia, entrambe le tibie, una caviglia. Ha un grosso bozzo sopra l’orecchio destro. «Selvaggi», si lascia scappare il medico.
Stefano Origone, il giornalista di Repubblica colpito a manganellate giovedì da un gruppo di poliziotti durante i tafferugli di Genova, è stato operato alla mano ieri pomeriggio all’ospedale Galliera: il chirurgo ha ridotto le fratture, le ossa erano «sbriciolate». Respira a fatica per via della costola a pezzi, quella mica si può ingessare. È ricoverato al piano terra, reparto intensivo. Una piccola stanza senza bagno, divisa con un altro paziente. Resterà in osservazione ancora un paio di giorni. È stato visitato da una psicologa. «Sto bene», ripete. Ma non è vero.
Dolori dappertutto
Gli fa male dappertutto. E non riesce a smettere di pensare a quegli agenti visti in azione giovedì pomeriggio: «Mi sembravano degli animali in gabbia: stanchi, esasperati dalle provocazioni degli antagonisti. Rabbiosi. Ad un certo punto ho avuto l’impressione che volessero solo andare al di là delle barriere in acciaio, sfogare tutta la loro frustrazione». Racconta delle forze dell’ordine, che in piazza Marsala dovevano proteggere tutti i genovesi e garantirne la sicurezza durante le proteste per il comizio di CasaPound. Parla degli agenti del reparto mobile, che abbandonata all’improvviso la “gabbia” sono partiti con una furibonda carica per motivi che devono ancora essere chiariti. Hanno cominciato a picchiare chiunque gli capitasse davanti. Il cronista di Repubblica terrorizzato gridava: «Sono un giornalista». Ma quelli, niente. Gli ha salvato la vita un funzionario di polizia, che dopo averlo riconosciuto gli ha fatto scudo col proprio corpo. Però intanto, quante botte.
Ieri lo ha contattato il Quirinale: Mattarella ha chiesto notizie del suo stato di salute. Anche Fico, presidente della Camera, lo ha cercato telefonicamente per sincerarsi delle sue condizioni. Il ministro dell’Interno Salvini, no. Origone ha ricevuto in ospedale la visita e le scuse ufficiali del questore di Genova, Vincenzo Ciarambino, e del capo della squadra mobile Marco Calì. Una telefonata del prefetto del capoluogo ligure, Fiamma Spena: «Mi dispiace tanto». Sul cellulare continuano ad arrivargli messaggi di solidarietà e richieste di perdono da parte di agenti e ufficiali. «Volevo rinnovarti le mie scuse ed auguranti una pronta guarigione», scrive via WhattsApp Giampiero Bove, il vicequestore che con ogni probabilità l’altro giorno gli ha salvato la vita. Invece Salvini, da cui dipende la polizia, non si è proprio fatto sentire. Neppure il premier Conte, nemmeno Di Maio.
Giovanni Toti, il governatore ligure di centro-destra, è andato a trovarlo di persona: «Anche io ho fatto il giornalista, e ho assistito a mille cariche della polizia: i caschi sugli occhi, gli scudi antiproiettile, le maschere antigas, i lacrimogeni… non vedi nulla, ti dicono che devi sgomberare e allora sgomberi. È stato un tragico errore».
Veramente in quel momento non stava accadendo nulla, gli ha risposto Origone. «Ci sta che possano avere sbagliato. La mattina si erano occupati di un presidio in porto, erano stanchi. Certo, questo non li giustifica», ha riconosciuto Toti. «In tutta questa storia ci guadagnano solo dieci squinternati di CasaPound: una città devastata, un giornalista picchiato, due auto incendiate e per loro una pubblicità che neanche Zingaretti, Salvini o Di Maio».
Secondo il governatore, i genovesi avrebbero dovuto autoregolamentarsi. «Se CasaPound è illegale, intervenga la Procura. Ma se non lo è, allora ha diritto a manifestare». E dunque? «Fategli dire quattro sciocchezze, non mischiatevi a chi tira sassi altrimenti ne diventate complici: andate da un’altra parte — che so, al Porto Antico — e manifestate in silenzio con al collo il cartello “CasaPound mi fa schifo”. Questo è il confronto». Gli ha replicato Stefania, la moglie di Stefano che da giovedì non lo lascia un secondo: «Io quelli di CasaPound li avrei mandati in qualche paesino in collina, come si fa coi rave party. Non nel centro della città».
L’ordine di caricare
Marco Bucci, sindaco (anche lui centro-destra) di Genova, a suo tempo ha negato il patrocinio al Gay Pride nel capoluogo ligure, giudicandolo «divisorio». Il primo cittadino ha telefonato nel pomeriggio, preferendo non parlare di quanto accaduto giovedì. «Mi ha chiesto come mi sentivo. Amareggiato». Invece il procuratore Francesco Cozzi nella sua chiamata qualche domanda sull’aggressione l’ha fatta. «Ma per ora ho solo dei flash, forse l’emozione è ancora troppo forte». Stefano si ricorda di militari e poliziotti «confusi, disorientati: i sottufficiali continuavano a rimetterli in riga, cercando di calmare gli animi mentre su di loro piovevano pietre e bottiglie. Un agente di mezza età estraeva dal tascapane dei lacrimogeni e li passava ad un collega. Aveva uno sguardo terribile. Carico d’odio». La carica. «Mi sono ritrovato a terra, gridavo fino a piangere. Poi un grosso scarpone vicino al volto. E all’improvviso, il buio».
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