Il Reddito di cittadinanza si sta rivelando sempre di più come un bluff. Nulla a che vedere con un meccanismo razionale di politiche attive per il lavoro, cioè di un aiuto concreto ai disoccupati per la ricerca di una nuova occupazione.
Non c'è solo la delusione di quanti si aspettavano di ricevere i 780 euro promessi infinite volte dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio che invece si sono visti recapitare un assegno di 40, o 100 o 200 euro. Tanto che sembrano essere sempre più numerosi i destinatari del Reddito di cittadinanza che si rivolgono agli sportelli dell'Inps per chiedere di rinunciare all'indennità, ritenendo che gli obblighi connessi siano troppo elevati rispetto all'importo percepito.
Il problema maggiore è legato alla sua funzione, che non avrebbe dovuto essere solo quella di dare un sostegno economico a chi versa in condizioni di disagio, ma soprattutto quella di aiutare i disoccupati nella ricerca di un'occupazione (anche per evitare l'effetto-divano, cioè il disincentivo al lavoro per i destinatari del Rdc): da questo punto di vista l'operazione si sta rivelando un fallimento completo.
Non solo perché i 6 mila navigator annunciati in pompa magna sono stati nel frattempo ridotti a 3 mila assunti a tempo determinato come ausiliari dei centri per l'impiego, ma soprattutto perché l'idea di trasformare in pochi mesi questi ultimi in strumenti efficaci per il collocamento di centinaia di migliaia di lavoratori si sta rivelando una bufala colossale. A certificarlo è arrivata pochi giorni fa anche una ricerca dell'Ocse che fa le pulci alle politiche attive per il lavoro italiane.
Nel dossier si legge, testualmente, che, in Italia, «i servizi pubblici per l'impiego hanno scarsa credibilità come intermediari». Lo certificano i numeri, che non lasciano ombra di dubbi: solo la metà dei disoccupati è registrata presso tali centri e solo l'1,5% dei datori di lavoro li ha usati come canale principale di reclutamento, mentre i due terzi hanno fatto ricorso alle proprie reti personali e sociali. Il risultato è che nel 2016 solo il 2,5% delle nuove assunzioni ha coinvolto un qualche servizio dei centri pubblici per l'impiego, una percentuale cinque volte inferiore alla media Ocse, che dimostra come tali centri «mancano di credibilità sia tra i datori di lavoro che tra le persone in cerca di lavoro».
Una situazione disastrosa che fa concludere all'Ocse come «attualmente non sia presente nessuno strumento nazionale appropriato a sostegno dell'incontro tra persone in cerca di lavoro e posti di lavoro vacanti ed è impossibile introdurre una funzione di matching tra le regioni (che faciliterebbe la mobilità regionale) in quanto i pochi strumenti esistenti a livello regionale non sono armonizzati e non possono essere collegati». Alè.
Come se non bastasse, il ministero del Lavoro e delle politiche sociali deve ancora emanare 16 provvedimenti attuativi del Reddito di cittadinanza, a cominciare da quello sul piano straordinario di potenziamento dei centri per l'impiego e delle politiche attive del lavoro (termine scaduto il 14 aprile) e quello sul credito d'imposta riconosciuto al datore di lavoro che comunica alla piattaforma digitale dedicata al Rdc la disponibilità di posti vacanti (termine scaduto il 30 marzo).
Evidentemente la cosa che interessava maggiormente i responsabili politici dell'operazione era arrivare a erogare i primi sussidi prima delle elezioni europee, tutto il resto era marginale (o meglio, appendice propagandistica). Anche perché le riforme delle politiche attive del lavoro richiedono tempi lunghissimi, forti investimenti e un chiaro disegno riformatore: il documento dell'Ocse cita a questo proposito il Jobs act, una riforma valutata molto positivamente, ma che, pur essendo stata varata nel 2014 e implementata con due riforme aggiuntive negli anni successivi (Buona scuola e Industria 4.0), non ha ancora prodotto tutti gli effetti positivi che ci si potevano attendere. E sono passati cinque anni.
Pretendere di trasformare i centri per l'impiego con un colpo di bacchetta magica è velleitarismo allo stato puro. La conseguenza ovvia è che il Reddito di cittadinanza, almeno per i prossimi anni, non può essere altro che un'operazione di assistenzialismo (finalizzata al consenso elettorale), mentre la maschera delle politiche attive per il lavoro è destinata a cadere in tempi brevi in modo fragoroso.
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