Orchestrali, coristi e ballerini giunti nella città romagnola grazie alla spedizione voluta da Cristina Mazzavillani Muti per aiutare gli artisti conosciuti nel Viaggio dell’amicizia
A Kroscienko, al confine tra Ucraina e Polonia, prima di salire in pullman hanno cantato il loro inno. L’inno ucraino. «Non è ancora morta la gloria dell’Ucraina né la sua libertà. A noi il destino sorriderà ancora» hanno cantato, ancora una volta, commossi. Per salutare la loro terra. E hanno poi intonato quello italiano, come a stringersi in un abbraccio con i cittadini ravvenati arrivati a prenderli per portarli in Italia, lontano dalla guerra. In mano le bandiere dei due paesi. Il tricolore e quella gialla e azzurra che ci è diventata ormai (tragicamente) familiare. Un viaggio lungo un giorno e i cinquantanove artisti del Teatro dell’Opera di Kiev sono arrivati a Ravenna, lontano dalle bombe, ma con la tristezza nel cuore. E negli occhi. In piazza Kennedy hanno cantato ancora gli inni, quello italiano e quello ucraino. Avvolti nelle bandiere. Per ringraziare la città romagnola che ha aperto le porte ai profughi ucraini grazie alla missione organizzata da Ravenna solidale dopo l’appello lanciato da Cristina Mazzavillani Muti, preoccupata «per gli amici di Kiev da quando è iniziata l’invasione di Mosca».
Quegli amici conosciuti nel 2018 nella capitale ucraina, tappa di uno dei più intensi, commoventi Viaggi dell’amicizia di Ravenna festival, la rassegna ideata dalla signora Muti, così come i pellegrinaggi laici in musica de Le vie dell’amicizia. Infaticabile, sempre in prima linea quando c’è da rimboccarsi le maniche Cristina Mazzavillani. Anche questa volta quando, indossata una giacca a vento e in testa un foulard a raccogliere i suoi capelli blu, è salita su un pullman ed è andata a recuperare gli amici di Kiev. Conosciuti quattro anni fa, quando nel Donbass si combatteva e si moriva, quando le ferite della rivoluzione arancione e dei morti della repressione di piazza Maidan erano ancora aperte. Quando Riccardo Muti portò sulla piazza davanti alla cattedrale di Santa Sofia (insolitamente, per luglio, sferzata dalla pioggia e dal vento che poi si sono placati, lasciando volare la musica nell’aria gelida) le note di Giuseppe Verdi. Anche allora erano risuonati gli inni italiano e ucraino. «L’Italia chiamò» avevano cantato i coristi di Kiev insieme a quelli italiani in uno dei tanti ponti di fraternità lanciati da Ravenna. Viaggi ideati dal maestro Muti e dalla moglie, la signora Cristina, partiti nel 1997 da Sarajevo, la città martire della Bosnia Erzegovina, come oggi sono martiri le città di Mariupol e Bucha in Ucraina.
L’Italia, oggi, li ha chiamati. Hanno negli occhi le immagini dei massacri, della distruzione, in testa il rumore delle bombe gli artisti del Teatro dell’Opera di Kiev, orchestrali, coristi, ballerini, tecnici, accolti a Ravenna e nell’ex Casa del clero in via Porta Aurea, allestita dalla Prefettura tramite la cooperativa La pieve, dopo il viaggio che dal confine tra Ucraina e Polonia li ha portati in Italia. «Artisti di grandissimo livello che hanno perso due case, la loro casa di mattoni, la loro terra naturalmente, ma anche l’altra casa meravigliosa, l’altra casa, quella del teatro che ora non possono frequentare. Una perdita totale della loro creatività e della loro anima» ha detto Cristina Mazzavillani cha ha guidato la spedizione organizzata da Cuore e territorio che in meno di due giorni ha fatto andata e ritorno tra Ravenna e Kroscienko, confine che i profughi di Kiev hanno raggiunto in treno prima di salire sui due pullman allestiti da Ravenna solidale.
Ad accoglierli in piazza Kennedy le note dell’inno europeo, la comunità ucraina di Ravenna e il sindaco Michele de Pascale. «Qui, come fu per Dante Alighieri, troverete un asilo sicuro, persone accoglienti e una cultura millenaria sorella della vostra. Viva l’Italia, gloria all’Ucraina, unite in Europa» ha detto il primo cittadino assicurando che «gli amici ucraini saranno ospitati a Ravenna sino a quando sarà necessario». Poi il trasferimento all’ex Casa del clero dove gli artisti ucraini hanno intonato il Va’ pensiero dal Nabucco di Verdi. «O mia patria sì bella e perduta, o membranza sì cara e fatal» le parole del popolo ebraico deportato da Nabucodonosor a Babilonia che nel 2018 gli ucraini, senza pensare che un giorno si sarebbero avverate anche per loro, avevano cantato davanti a Santa Sofia diretti da Muti. Muti che in questi giorni da Chicago ha seguito con affetto e partecipazione l’operazione ravennate. Un suono di «crudo lamento» che si fa preghiera, «O t’ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù», richiesta accorata, di avere la forza di sopportare il dolore, le sofferenze. Con la musica di Verdi. E con quella della liturgia. Perché domenica 10 aprile i coristi dell’Opera di Kiev diretti dal loro maestro, Bogdan Olish, animeranno con il loro canto la messa della Domenica delle Palme presieduta nel Duomo di Ravenna dal vescovo della diocesi romagnola, monsignor Lorenzo Ghizzoni.
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