domenica 24 aprile 2022

Opere liriche da romanzi e racconti di Alberto Moravia oggi dimenticate. Una segnalazione per il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto che riesumerà un'opera di Carpi, da Kafka, su libretto di Strehler, mai andata in scena

 ( da 'Moravia e la Musica', di Pietro Acquafredda. Manoscritto)

Moravia librettista per Peragallo

Due sono le occasioni in cui lo scrittore affida in prima persona un suo testo alla musica. Tralasciando il caso delle due canzoni per Laura Betti, di cui ci occupiamo dettagliatamente più avanti, il primo e più consistente, vede Moravia 'librettista' occasionale del musicista Mario Peragallo ( non sappiamo se lo scrittore in prima persona, o il compositore, autonomamente, in base all'economia della musica, con il successivo, scontato placet dello scrittore ), operando una riduzione consistente - più che una riscrittura dell'originale, con la sola aggiunta del brevissimo 'Quadro terzo' conclusivo, 'corale' - di un suo racconto breve, datato 1945, che l'autore in una lettera (8 ottobre 1953) definisce 'novella'( “...a Milano si daranno due cose mie: La mascherata al Piccolo Teatro e un'opera in un atto del maestro Peragallo tratta dalla mia novella Andare verso il popolo insieme con un'altra opera di Menotti...”) e intitolato Andare verso il popolo (in Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941-1949. A cura di Simone Casini. Bompiani. Classici, 2002), che nell'opera di Peragallo, assumerà il titolo La gita in campagna (libretto in Alberto Moravia. Teatro Vol. II. A cura di Aline Nari e Franco Vazzoler. Bompiani,Tascabili 2004), andata in scena alla Scala il 24 marzo 1954.

La gita in campagna debuttò assieme a due altri atti unici: La figlia del diavolo, esordio operistico di Virgilio Mortari, su testo di Corrado Pavolini; e Amelia al ballo di Giancarlo Menotti, scritta nel 1937, con alle spalle un successo consolidato , che ebbe il compito di concludere positivamente la serata che con l’opera di Peragallo/Moravia aveva toccato il suo punto più contrastato.

Per la cronaca, il direttore del trittico di opere contemporanee fu Nino Sanzogno; e, nel caso dell’opera di Peragallo/Moravia, la regia fu di Enrico Colosimo; i bozzetti per scene e costumi di Renato Guttuso, e direttore dell’allestimento fu Nicola Benois.

L’opera racconta di una coppia di giovani, Ornella e Mario, che in una ‘Topolino’ girano per la campagna romana, nell’inverno del 1944. La loro macchina è in panne, serve acqua per il radiatore, e Mario pensa di andare a prenderla in una capanna poco distante; approfitterà anche per condurre le sue indagini di cronista sulle condizioni del popolo, a guerra appena finita. Giungono alla capanna - nel corso del cammino Ornella, prima riluttante, si fa baciare da Mario - dove vive in miseria una famigliola. La contadina, di nome Leonia, dà a Mario un recipiente e gli indica il pozzo, dove attingere l’acqua; là c’è suo marito, Alfredo. Leonia, restata sola con Ornella, la deruba di tutto, lamentando l’assoluta mancanza di ogni cosa. Quel poco che aveva la sua famiglia glielo hanno portato via i tedeschi. Medesima sorte toccherà a Mario, il quale con Ornella, ambedue quasi nudi, raggiungono la macchina per far ritorno a Roma. Prima di partire circondano la topolino altri contadini e ragazzi che chiedono la carità, perché a loro volta furono derubati di ogni cosa dai tedeschi. Per fortuna la macchina riparte, mentre il gruppetto li insegue invano, gridando ‘la carità, fateci la carità…’.

Con l’opera di Peragallo/Moravia, la cronaca fece irruzione nel melodramma, come aveva già fatto nel cinema neorealista italiano, che tanta influenza ebbe nello sviluppo della cinematografia mondiale.

Nel presentare l’opera, sul programma di sala della Scala, Massimo Mila accennava alle difficoltà in cui si dibatteva l’opera lirica che attendeva ancora chi avrebbe raccolto il testimone di Mascagni, Giordano, Zandonai, mentre allora contavano i nomi di Pizzetti, Casella, Malipiero i quali avevano percorso strade proprie ed alternative rispetto alla tradizione. A Peragallo, che già aveva dato al teatro altri titoli prima della Gita, si guardò come a colui che poteva ripetere i successi dell’ultima grande scuola italiana del melodramma. Che era poi anche la segreta speranza dello stesso Peragallo il quale dopo i successi delle sue precedenti opere ( Ginevra degli Almieri, 1937; Lo stendardo di San Giorgio,1941), e dopo un periodo di crisi compositiva, tacendo quasi del tutto, ora si rimetteva all’opera, forte di alcune prove strumentali ben accolte. Sulla sua sincerità, nell’assoluta autonomia del nuovo linguaggio musicale, era pronto a scommettere lo stesso Mila, che sottolineava: ”il particolare biografico che Peragallo non abbia alcun bisogno dei diritti d’autore per condurre una vita più che passabile, cessa di essere una futile indiscrezione e diviene invece elemento da tenere in conto come indice della sua assoluta sincerità, anche in questa prima fase di attività artistica”. Insomma, voleva dire Mila, Peragallo è ricco e quindi se intraprende una strada nuova, abbandonando quella passata che gli aveva meritato un bel successo, non lo fa per guadagnarsi da vivere con i diritti d’autore, puntando sulla novità per la novità, e dunque va considerato sincero e meritevole di fede ed attenzione, nonostante che nello specifico si fosse avvicinato alla dodecafonia. Egli che, a differenza di molti compositori dell’avanguardia musicale dell’epoca che avevano amoreggiato anche con la dodecafonia, veniva dal teatro tradizionale ottocentesco. Peragallo aveva cioè lasciato il certo per l’incerto e per il difficile: deciso ad andare per la propria strada, mentre parallelamente era già spuntato il partito di chi aveva smesso di scrivere musica per i critici e i colleghi ed aveva ‘tentato di stabilire intorno a sé un contatto umano’ ( antenati dei cosiddetti neoromantici, neomelodici, neotonali?). Peragallo sta lontano dall’uno e dall’altro schieramento, quando scrive La gita in campagna, come annota Mila, nella presentazione dell’opera: ”Peragallo si è accostato nuovamente all’opera musicale, con la volontà di farsi capire e seguire, e nello stesso tempo di non abdicare a quella decenza di stile cui dovrebbe restar fedele ogni musicista onesto. Proprio nella difficoltà di tale tentativo, concludeva Mila, va cercata la ragione per cui Peragallo s’è mantenuto nel ristretto cerchio dell’atto unico, meno rischioso, rientrando nel mondo dell’opera quasi in punta di piedi; ha voluto lanciare un segnale nella speranza che qualche altro musicista lo colga, evitando, perfino, di raccogliere ‘le insinuazioni di amarezza sarcastica' che erano implicite nel racconto di Moravia”.

Luigi Pestalozza su Il Verri ( n.4, dicembre 1958), scriverà anni dopo, a seguito della ripresa romana, per l'Accademia Filarmonica (26 febbraio1958, al Teatro Eliseo)

dopo che l’opera era stata ben accolta all’estero, che La gita in campagna ha rappresentato l’unico tentativo serio della musica italiana di inserirsi, e di prendere posizione, sulle questioni di fondo, sui conflitti umani che segnano i nostri giorni…”. E ancora, che Peragallo “ha saputo conciliare l’engagement sociale con l’avanguardismo musicale, ed è approdato ad un risultato di comunicazione, di espressione, di stile e dunque di originalità”, il che - spiega - vuol dire che Peragallo ha compiuto “un tentativo, fuori d’ogni demagogico semplicismo di ricondurre la nostra musica, il nostro teatro musicale ad una tematica realistica”.

Di parere diverso Guido M. Gatti: “La gita in campagna suscita ilare stupore e fiere proteste. Vuole 'épater le bourgeois' per l'emancipazione del racconto alla brava di Alberto Moravia che celia alla sua maniera spericolata su misere cose di una misera gioventù d'oggi. La musica di Peragallo si fa sempre più avventurosa e spiccia dacché ha lasciato la via intrapresa agli inizi”( ne Il teatro alla Scala.1778-1958. Pag. 453).

Invece Fedele d'Amico mette la croce sulle sole spalle di Peragallo, cui si deve la scelta dell'argomento ed ancor più del libretto: ”Il difetto di quest'opera è nel libretto, che ricalca passivamente la novella nell'illusione che un dialogo possa sostituire un'azione scenica; la quale dovrebbe invece avere un suo ritmo. Specie in un assunto comico, è difficile fare a meno d'una sceneggiatura che conduca coscientemente la dinamica degli affetti.... E tuttavia il bilancio dell'opera (considerando soprattutto l'elemento musicale, ndr.) mi pare largamente in attivo, nonostante il suo clamoroso insuccesso presso gli abbonati della Scala”, il cui pubblico, d'Amico bolla senza mezzi termini, quando scrive che il comportamento da questi tenuto durante la rappresentazione “giustifica ancora una volta la sua fama di essere, senza confronti, il pubblico più villanzone del mondo”. (Fedele d'Amico, I casi della musica, Il saggiatore, pagg.18-19). Di opposto parere è Massimo Mila che, in occasione della ripresa romana del 1958, scriverà che “il testo è uno dei più stimolanti che si possano incontrare nel teatro lirico... proprio in ragione della estrema intelligenza del testo, musica ce n'è relativamente poca...” ( L'Espresso, 9 marzo 1958)

Fin qui i pareri e le reazioni degli addetti ai lavori. E il pubblico?

Ci vengono in aiuto alcune cronache autorevoli di quei giorni milanesi. Pasquale Festa Campanile (La Fiera Letteraria) va a sentire lo stesso Moravia, che di lì a pochi giorni, il 14 aprile, avrebbe assistito a quello che egli considerava il suo vero debutto drammatico, con Commedia tragica (da La mascherata), regia di Strehler, al Piccolo Teatro di Milano. E ne scrive nel suo pezzo, intitolato Due ciabatte a teatro.

E’ andata malissimo - gli disse tranquillamente Moravia - peggio di così non poteva certamente andare. Debbo dire, comunque, che quello della Scala è un pubblico provinciale. Esso si è comportato male perché è venuto a teatro con l’idea preconcetta di far giustizia sommaria. Hanno tirato due ciabatte sul palcoscenico: quindi le ciabatte se le erano portate da casa. Forse su questo comportamento hanno influito le idee politiche e le scene di Guttuso per esempio. Forse è stata l’irritazione per un argomento sgradevole, neorealistico direi. La presenza di due poveri sulla scena ha fatto pensare che si trattasse di un’opera di sinistra, mentre era semplicemente un grottesco. A mio avviso non c’era motivo per una protesta così violenta e, in ogni caso, si poteva aspettare la fine dello spettacolo. A me personalmente la musica dodecafonica di Peragallo è piaciuta come del resto è piaciuta a tutti coloro che se ne intendono”.

Per la cronaca della serata, Festa Campanile annotò: “ Fu forse la presenza sulla scena di una macchina vera - una Topolino A. balestra lunga ( e alla Scala non s’era mai vista una cosa del genere) - a sconcertare il pubblico fin dall’inizio. Oppure fu l’apertura sociale intravista da qualcuno e sottolineata dalle scene di Guttuso; o, in effetti, la musica di Peragallo. Certo è, per la cronaca, che alla fine dello spettacolo il pubblico mostrò i pugni tesi agli autori e si mise a scandire ‘Buffoni, buffoni’. Sul palcoscenico arrivarono perfino due ciabatte, lanciate dal loggione. Il giorno successivo, in sede di resoconto, un quotidiano spingeva la sua critica, al punto di scrivere:’Quanti milioni sarà costato l’allestimento di quest’opera alla Scala? A proposito di aperture sociali, non sarebbe stato meglio offrirli, per esempio, al soccorso invernale?”.

Certamente quanto accadde quella sera alla Scala non incoraggiò successivamente Moravia a intrecciare altre volte la sua opera al melodramma; ma, forse, più semplicemente nella sua attività di scrittore si sentiva estraneo al mondo dell’opera lirica, che pure ammirava, come dichiarò in seguito: “ per me l'opera lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni or sono... la particolare esperienza culturale e artistica dell'opera lirica... non è cambiata, ed è insostituibile e inconfondibile...”. (Sipario, 1964, n.224)

Ma forse una qualche colpa dell’esito disastroso della serata l’ebbero i dirigenti scaligeri, come faceva notare, in una acuta recensione della serata, fin dal titolo: Un trittico forzoso, Emilia Zanetti, ancora dalle pagine de La Fiera Letteraria .

Concentrare tre primizie in una sola serata - come ha fatto la Scala per il secondo ed ultimo spettacolo di novità liriche offerte dal cartellone di quest’anno - è cosa alquanto inusuale quando non si tratti di festivals e di stagioni d’eccezione. Ma ci permetteremo di considerare ottimistica quella interpretazione che ha esaltato il procedimento come una sorta di giustizia economica a beneficio dei compositori contemporanei. Continuando questi a preferire l’atto unico è anche spiegabile che gli organizzatori finiscano col provvedere per proprio conto ad associarli in una rappresentazione di durata normale. Quanto al vantaggio che ne ricaverebbero i compositori stessi è più esatto negarlo, sia per la difficoltà che incontra la preparazione artistica, sia per la ricettività del pubblico messa a troppo dura prova dal contrasto di stili e di tendenze che, intrinseco alla situazione operistica di oggi, non può non sottolinearsi quando si mettano tre autori a contatto di gomito”.

Proseguendo: “Del clamoroso rifiuto che gli ha opposto il pubblico della Scala, si è sufficientemente letto sui quotidiani per tornare a riferirne. Pittoresco a vedersi e candidamente sproporzionato alla portata del fatto, esso ha inoltre molte probabilità di venire smentito in altre sedi meno ‘storiche’ o un po’ più spregiudicate ed ospitali alle voci d’oggi. Il che non significa che vogliamo dipingere Peragallo nelle spoglie dell’agnello innocente…”.

E, infatti, quando nel 1958 l'opera di Peragallo/Moravia fu ripresa a Roma (trasmessa anche alla radio), per iniziativa della Accademia Filarmonica, al Teatro Eliseo, in un ambiente molto più consono alle dimensioni 'cameristiche' dell'opera, valutata alla stregua di un antico 'intermezzo' - e non più davanti ad un pubblico come quello della Scala, considerato tradizionalista e provinciale - l'opera fu accolta bene, come del resto era già accaduto nelle numerose riprese che si ebbero, dopo la Scala, in Germania e America. A Roma l'opera fu diretta da Bruno Bartoletti, sul podio dell'Orchestra della RAI di Roma, ed ebbe la regia di Luigi Squarzina. Fra il pubblico: Alberto Moravia, Giorgio De Chirico, Lorin Maazel, Elsa Morante, Palma Bucarelli, Goffredo Petrassi, Guido Turchi, Piero d'Orazio, Toti Dal Monte, Massimo Mila, Elsa Respighi tra gli altri.

Da allora (e fino ad oggi) non si ricordano altre riprese.


Opere da romanzi di Moravia

Due i casi. Il primo è del 1956 e riguarda il romanzo d'esordio di Moravia, Gli indifferenti del 1929, dal quale ( un episodio di seduzione avviato nel cap.VI, che si sviluppa nei capitoli seguenti e termina nel X, ) Gino Negri trasse il libretto della sua opera 'in un atto e due personaggi': Vieni qui Carla, per soprano, baritono e dieci strumenti, data al Piccolo Teatro di Milano, giovedì 29 novembre 1956, davanti ad un pubblico di invitati. Sulla partitura, edita da Suvini Zerboni, si precisa che “ il libretto, scritto dallo stesso compositore, è stato tratto, col permesso dell'autore, dal romanzo di Alberto Moravia, Gli indifferenti (edizioni Mondadori)”.

Da una lettera di Moravia, senza data, conservata nel Fondo 'Gino Negri' della Biblioteca dell'Università di Milano - che ce l'ha gentilmente fornita - in risposta ad una, di molto anteriore, del compositore, apprendiamo della richiesta di un incontro che quasi certamente non avvenne:

Gentilissimo signor Negri,

Io sono in colpa verso di lei che mi scrisse tanto tanto tempo addietro. Mi voglia scusare ma per qualche motivo che non so, la sua lettera che avevo messo da parte per rispondervi andò a nascondersi sotto certe carte e soltanto oggi con costernazione io l'ho ritrovata. Dico costernazione perché mi sono accorto del tempo passato da quando la ricevetti. Io non so a che punto sia adesso la sua impresa di musicare Gli Indifferenti. Spero che il mio silenzio non l'abbia scoraggiato. In tutti i casi le scrivo per dirle che sono ben contento che lei l'abbia fatto e che mi interesserebbe sempre moltissimo incontrarla e parlare con lei della cosa. Insomma se lei viene a Roma, mi farà molto piacere telefonandomi, alla mattina, al numero 380.287. Con tanta cordialità, mi creda il suo, Alberto Moravia”.

Moravia, dunque, si scusa con il compositore, si dichiara felice che un'opera venga tratta dal suo romanzo e si dice disposto, nel caso di un suo viaggio a Roma, ad incontrarlo, pregandolo di avvertirlo, telefonandogli, ma 'alla mattina'.

Dalle cronache giornalistiche dell'epoca apprendiamo che all'opera (della durata di una cinquantina di minuti circa) Gino Negri vi avrebbe verosimilmente cominciato a lavorare all'indomani del debutto alla Scala della Gita in campagna di Mario Peragallo; e che era pronta da più di un anno (alcuni giornali scrissero 'due anni') prima del suo debutto al Piccolo, dove pare, a detta dei giornali, che l'autore l'abbia fatta rappresentare a sue spese, con il contributo della casa editrice e di qualche sostenitore. La lunga attesa è da addebitare certamente alla difficoltà per l'autore di 'piazzare' il suo lavoro, a causa dall'argomento 'scabroso' - una scena di seduzione, dall'inizio alla fine: ”un episodio del più brutale realismo amoroso: una lunga scena di seduzione con un finale che non è da riferire”, scrisse il critico de La notte, e altrettanto non mancarono di sottolineare tutti i giornali, in coro. Osiamo, perciò, ipotizzare che quella lettera 'tardiva' di risposta di Moravia a Gino Negri potrebbe anche non essere dello stesso anno del debutto, ad inviti, al quale Moravia non assistette ( in quel periodo era a Roma e stava rivedendo la versione definitiva de La ciociara, che uscì l'anno dopo), mentre folta fu la rappresentanza del mondo culturale e musicale dell'epoca (presenti: Franco Donatoni, Aldo Clementi, Giorgio Federico Ghedini, Efrem Casagrande, Alberto Soresina, Eugenio Montale, Beniamino Del Fabbro, Caty Berberian, Ornella Vanoni, Orio Vergani, Fiorenzo Carpi, Maderna Koepnich ecc...).

Il secondo è , invece, recentissimo e riguarda  La ciociara, dal quale dopo il famoso film di De Sica, qualche anno fa  MarcoTutino ha tratto un'opera intitolata Le due donne

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