sabato 10 aprile 2021

TRAVIATA dell'Opera di Roma. Gatti strepitoso, Martone 'ideologico', musica 'tecnicamente' non sempre curatissima

Ieri, su Rai Tre, è arrivato il grande evento televisivo annunciato da mesi, la cui registrazione è stata effettuata a febbraio di quest'anno, (come precisavano i titoli di coda). La TRAVIATA di Giuseppe Verdi, diretta da Daniele Gatti con la regia di Mario Martone - una  produzione dell'Opera di Roma e di Rai Cultura - che segue di qualche mese appena la ripresa del BARBIERE  di Rossini, con analoghe modalità: l'opera senza stravolgimenti, ripresa anche con tecniche cinematografiche e televisive.

Un  evento annunciato con  eccessivo risalto dedicato al regista, mentre un'opera è prevalentemente 'affare' della musica: orchestra, cantanti, coro e direttore. 

 E allora partiamo dalla regia. Martone - così come ha fatto con il Barbiere - ha voluto anche per Traviata sottolineare una sua idea dell'opera e soprattutto della vicenda e della protagonista, dicendoci, e ripetendo ogni volta che la situazione lo permetteva, che Violetta è una puttana, di alto bordo (le cronache di ogni tempo, comprese quelle recenti, sono piene di escort di lusso!). E, infatti, la scena si apre con Violetta che saluta un suo cliente sulla porta dell'alcova, mentre la cameriera conta prontamente il 'regalino' - come si chiama nel gergo che ipocritamente nobilita il prezzo pagato per il sesso - lasciato dal cliente.  E, come non bastasse, ci fa subito visitare la casa di Violetta  che in effetti  è un 'lupanare' con puttane in ogni dove. Stessa idea nella festa in casa di Flora, dove zingare e toreri, sono piuttosto donnine discinte e maschi 'oggetti di desiderio', fra ospiti assatanati e guardoni.

Nel Barbiere  c'erano le funi a simboleggiare ciò che Martone leggeva nell'opera: le catene che tenevano prigioniera la povera Rosina; nella Traviata, soldi e grande lampadario luccicante  per significare un mondo luccicante ma fatuo che adora il dio denaro.

 Simboli inutili e 'ideologici' che se il regista non li avesse spiegati nessuno li avrebbe captati.

 E poi, vogliamo dire a Martone, ci sembra che poco o nessun risalto sia stato dato al fatto che il fuoco purificatore dell'amore di Alfredo  abbia trasformato Violetta.

 Altro simbolismo insistito, nel caso della residenza fuori Parigi dei giovani amanti, sul verde finto che viene giù in un attimo e che costringe, per la presenza di troppe funi ed aste, i protagonisti a zompettare. Basta poco, dice Martone, per distruggere qualunque cosa, anche buona. E così la campagna parigina diventa un deserto.

E, infine, la tinta cupa dell'intera rappresentazione, perfino nelle feste che dovrebbero essere piene di luci; a differenza del Barbiere in cui il teatro della vicenda - ancora la platea del Costanzi - era sempre  inondata di luce.

Per la parte musicale qualche appunto va mosso, dal punto di vista tecnico, ai passaggi in cui la vicenda viene ambientata  nel foyer o nei corridoi 'ai piani' del teatro: l'orchestra che suona nella buca, sembra lontana, e dà l'idea di una colonna sonora, il sottofondo di un film. 

I due protagonisti ci hanno messo qualche minuto prima di essere all'altezza dei loro ruoli, dal punto di vista vocale. E Violetta supera di molte misure Alfredo, vocalmente. 

Gatti ha avviato il preludio con una consapevolezza straordinaria, perchè lì c'è tutta la vicenda della Traviata; ed anche se ha in certi punti accelerato oltre misura, con il rischio di banalizzarli (come nell'incontro drammatico fra Violetta e Germont padre) ha dato una  lettura complessiva di grandissima intelligenza ed aderenza.

 Forse che questo non basta a Gatti - italiano !!!! - per esser candidato alla successione di Pappano, ammesso che rientri nei suoi progetti futuri?

Bel colpo di teatro l'ultima scena con Violetta che va a morire in proscenio, affacciata sulla buca dell'orchestra, buia, dove  non ci sono più nè i suonatori nè il direttore.

 

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