Pagare per le immagini dei beni culturali: a
quale modello bisognerebbe far riferimento?
L’emanazione del decreto Tarasco e le sentenze del tribunale
di Firenze hanno improvvisamente risvegliato il dibattito sulla
gestione delle riproduzioni di beni culturali pubblici: decreto e
sentenze hanno segnato uno scarto rispetto alle direzioni recenti. A
quali modelli bisognerebbe riferirsi?
L’emanazione del
decreto “Tarasco” (call it by its name) e le
pressoché contemporanee sentenze del tribunale di Firenze hanno
improvvisamente risvegliato il dibattito sulla gestione delle
riproduzioni di beni culturali pubblici. Decreto e sentenze hanno
infatti segnato un improvviso scarto rispetto alla direzione impressa
negli ultimi anni dal Ministero della Cultura verso una temperata
liberalizzazione, riconoscibile sia nelle modifiche all’art. 108
del codice dei beni culturali e, ancor più, nei contenuti del Piano
Nazionale per la Digitalizzazione.
Decreto e sentenze
sono state criticate in particolare su tre piani: il primo per aver
voluto considerare le immagini di beni culturali esclusivamente come
cespite di entrate per lo Stato, riesumando un’impostazione
“bottegaia” delle politiche dei beni culturali che immaginavamo
fosse ormai morta e sepolta; il secondo per la confusione che viene
fatta tra i beni culturali intesi come “cose” – tutelati dal DL
42/2004 – e le loro immagini – soggette, solo se riferite a beni
di enti pubblici e nel caso di utilizzi a fine di lucro,
semplicemente a un regime di concessione facoltativamente oneroso
–; il terzo per aver esteso ai beni culturali una tutela finora
prevista solo per l’identità delle persone.
Sulle ragioni del
decreto e delle sentenze si sono espressi molti esperti di diritto,
che in sostanza si sono limitati a dirci una cosa che, in realtà,
già sapevamo: ovvero che si tratta di provvedimenti in linea di
massima legittimi (anche se su alcuni punti, come illustreremo, ci
restano dei dubbi). Sarebbe però altrettanto lecito domandarsi
quanto sia opportuna una svolta di questo genere, e dunque non tanto
se il decreto e le recenti sentenze siano davvero
una necessaria applicazione della legge, quanto se
vi siano altre interpretazioni, più aderenti ai
principi costituzionali. Mi riferisco, ovviamente, agli articoli 9
(promozione della cultura e ricerca), 21 (libertà di pensiero ed
espressione) e 33 (libertà di ricerca e insegnamento); prendiamo poi
in considerazione anche l’art. 97 (equilibrio dei bilanci pubblici
e buon andamento dell’amministrazione). Orbene, in che direzione ci
ha portato l’interpretazione che è alla base del decreto Tarasco?
David
di Michelangelo. Foto: Guido Cozzi
1. Per una
pubblicazione di immagini di beni culturali dello Stato si paga
sempre, comunque e a caro prezzo: per il decreto non c’è
pubblicazione che non sia considerata senza fine di lucro, compreso
l’Open access. Di conseguenza, la maggior parte dei beni culturali
italiani rischiano di non essere più oggetto di studio, dal momento
che le loro immagini non saranno disponibili a chi non può
permettersi significativi esborsi. Non parliamo di poche opere di
grande impatto mediatico, ma di migliaia di km di documenti
d’archivio e di risorse bibliografiche, nonché di un numero
incalcolabile di opere d’arte e di reperti archeologici perlopiù
conservati in magazzini. Ciò significa “tassare” la ricerca e
deprimere la valorizzazione del patrimonio culturale («Chi siete?
Una foto? Un fiorino!»).
2. I costi
maggiori sono però quelli burocratici per la gestione delle pratiche
di concessione che sono state reintrodotte, che per la pubblica
amministrazione sono superiore agli introiti, quindi un danno ai
bilanci: questo lo dice la Corte dei Conti (Delibera n. 50/2022/G).
Si tratta di un costo diretto anche per il cittadino, costretto,
oltre che a pagare in solido, a impegnare il suo tempo nel seguire
queste pratiche e attenderne i tempi di gestione. Tutto questo viola
i principi di equilibrio dei bilanci e buon andamento
dell’amministrazione cari all’autore del decreto.
3. Si
reintroduce un’illegittima forma di controllo preventivo
sull’utilizzo delle immagini dei beni culturali per valutarne una
conformità al decoro, con una forzata interpretazione dell’art. 20
del DL 42/2004 – che riguarda interventi sul bene, non sulla sua
immagine –, calpesta la libertà di divulgazione delle immagini per
fini diversi dal lucro già sancita nel 2014 con l’introduzione
dell’art. 108 comma 3 bis nel testo del codice. Così facendo si
impone una vera e propria forma di censura in spregio alla libertà
di ricerca, pensiero ed espressione. Del tutto fuori luogo sembra a
questo proposito il richiamo a un presunto diritto all’identità
collettiva dei cittadini, richiamato dalle sentenze di Firenze.
L’ondata di
proteste che ha investito il decreto, tuttavia, qualche frutto
potrebbe averlo portato: sembra che il ministro, probabilmente
toccato dalle critiche provenienti da tutte le parti, abbia ingiunto
all’autore del decreto di correggere il pasticcio, al punto che
oggi circolerebbe già una nuova bozza, tenuta però rigorosamente
segreta invece di essere oggetto di concertazione pubblica (come è
stato invece per il Piano Nazionale Digitalizzazione). Dalle
indiscrezioni che trapelano, pare che la nuova bozza renda gratuiti i
periodici classificati come scientifici da ANVUR (una
classificazione, oltretutto, che ha il solo scopo di misurare la
produzione degli universitari, e che non ha certo alcuna base
scientifica): un passo in avanti rispetto a prima ma dieci indietro
rispetto al PND che prevedeva la gratuità per l’intero settore
editoriale. Ebbene: sarebbe opportuno che le Università
respingessero come “patto scelere” una simile proposta di
gratuità – suggerita sempre da Tarasco – pronunciandosi
apertamente contro questa soluzione “corporativa” con un richiamo
ai valori costituzionali di libertà di ricerca e di espressione e di
promozione della cultura e della ricerca che dovrebbero essere
principi fondanti della loro azione.
Infine, una
osservazione che vuole essere anche un appello: il decreto si applica
solo ai beni statali. Ciò significa che gli altri enti pubblici
territoriali restano liberi di determinare i propri canoni, e volendo
anche di azzerarli nella cornice del codice dei beni culturali e
della direttiva 2019/1089 (UE), che se è vero che da un lato esclude
dall’applicazione le riproduzioni di beni di musei, archivi e
biblioteche, d’altro canto specifica che «i limiti massimi per i
corrispettivi […] non pregiudicano il diritto degli Stati membri di
imporre costi inferiori o di non imporne affatto».
Siano allora proprio gli enti locali a dare l’esempio allo Stato,
introducendo per via regolamentare quei principi di Open Access che
il Ministero si ostina a negare ai suoi stessi istituti, ma non ai
suoi beni, visto che il Museo Egizio di Torino è il primo in Italia
ad aver rilasciato online immagini di beni statali liberamente
riutilizzabili anche per fini commerciali!
In conclusione,
occorre dichiarare con onestà a quale modello economico e sociale si
intende fare riferimento con queste politiche così miopi. A un
modello apparentemente liberista – ma nella realtà arretratamente
statalista e alla fine semplicemente bottegaio – oppure a un
modello in cui il patrimonio culturale sia considerato della
Repubblica, quindi in primis dei cittadini, e le
loro immagini strumento di promozione culturale e sociale,
all’interno di un sistema di libera circolazione di idee e di
manifestazione del pensiero?