L’appuntamento è a Fermo, nel pomeriggio del 4 aprile al Teatro dell’Aquila. Con tanto di delibera comunale, la cittadinanza è invitata a partecipare ad un incontro pubblico: letture da parte di un grande attore del teatro italiano (Giuseppe Pambieri, con la figlia Micol) e successivo dibattito, con il presidente della locale società Dante Alighieri e un ex sindaco. Il tema, nel web e sui social, già fa litigare i possibilisti e gli scettici: nella nostra città abitò il Divino Poeta?
A scatenare la querelle è un libro, terzo di una trilogia che immagina il ritrovamento di un dramma perduto di William Shakespeare sulla Divina Commedia e sul suo autore: Dante di Shakespeare III. Come è duro calle (Solferino), della coppia Monaldi & Sorti, che da Vienna parteciperanno in remoto all’evento del 4 aprile. Con all’attivo 12 romanzi corredati da corposissime appendici storiche, tradotti in 26 lingue e 60 Paesi, i due autori (marito e moglie nella vita) nel fare ricerche sul Dante che Shakespeare avrebbe potuto raccontarci in teatro, hanno riscoperto due pergamene del primo Trecento custodite nell’Archivio di Stato di Fermo, in cui figura al servizio del Comune un certo Jacopo Alighieri: lo stesso nome di uno dei figli del Poeta.
Si era sempre creduto fosse una banale omonimia; e invece Monaldi & Sorti nel libro hanno documentato le connessioni (politiche, biografiche, temporali) tra questo Jacopo e il Dante Alighieri della Commedia. E se Jacopo era in città, facilmente poteva esserci anche il padre esiliato, soprattutto nel periodo in cui usava come base la non lontanissima Forlì. Ma non è tutto: i due “segugi della storia”, come sono stati definiti dalla stampa italiana, stanno trovando nuovi documenti: «C’è materia per scrivere un libro a parte solo su queste scoperte».
La Divina Commedia, ricordano Monaldi & Sorti nelle appendici del loro romanzo, è piena di riferimenti alle Marche, incluse rare espressioni gergali: tutto suggerisce che Dante abbia soggiornato nella regione. Ma la vera novità è che adesso Dante “appare” nell’orbita dei mistici e misteriosi monti Sibillini: Fiastra, Corridonia, San Ginesio, Fermo, Urbisaglia… Il codice più antico della Commedia (1336), il famoso Landiano, è stato scritto da tale Antonio di Fermo, su incarico di Beccario Beccaria (capitano del popolo di Fermo, Dante ne cita un antenato nel poema). Anche il Dottrinale, un poemetto di Jacopo figlio di Dante, in certi passi “parla” marchigiano. A Fermo negli anni di Dante c’era una forte colonia di esuli fiorentini, in una zona che ancora oggi si chiama “contrada Fiorenza”. Erano presenti in zona gli Elisei, avi di Dante (nel Paradiso appare al poeta il famoso Cacciaguida degli Elisei), e in città è rimasto un vicolo detto “degli Elisei”. Da Fermo veniva il beato fra’ Giovanni Elisei della Verna, quindi probabilmente parente del Poeta (e il monte della Verna, in Toscana, era notissimo a Dante). Tutti questi personaggi hanno ovviamente un posto di rilievo nel romanzo di Monaldi & Sorti, e non manca – in prestito da Sogno di una notte di mezz’estate di Shakespeare – la spassosa filodrammatica amatoriale che sui Monti Sibillini mette in scena in dialetto marchigiano l’inizio della Divina Commedia.
Eppure il “Dante marchigiano”, e in particolare il suo passaggio tra i monti Sibillini, resta negato dalla Storia. «Forse anche perché marchigiani e fermani non se ne sono occupati. Non hanno fatto un sano lobbying culturale per la loro terra», dicono Monaldi & Sorti. La biografia dantesca è stata quindi “monopolizzata“ da tre regioni: Toscana (Firenze), Veneto (le soste di Dante nella Verona scaligera), Emilia-Romagna (la morte a Ravenna, e i probabili studi giovanili a Bologna). Uno dei migliori biografi contemporanei di Dante, Giuseppe Indizio, ritiene però che Forlì sia stata la «base» di Dante per varie missioni diplomatiche all’inizio dell’esilio, alla ricerca di appoggi per i suoi Guelfi bianchi appena cacciati da Firenze. E Forlì poteva essere un ottimo “trampolino“ verso sud. L’autore della voce «Marche» nella Enciclopedia Dantesca della Treccani, Febo Allevi (1911-1998) aveva intuito che proprio nella sua zona (Allevi era di San Ginesio, MC) poteva aver soggiornato il Divino Poeta. Dalle sue intuizioni sono partiti Monaldi & Sorti. Allevi aveva segnalato le pergamene con il nome di Jacopo: due atti legali del 1306 e del 1325 in cui il suo nome figura come syndicus (cioè procuratore speciale) di Fermo, in alcune trattative politico-diplomatiche tra i Comuni marchigiani. Allevi non proclamò che si trattasse del figlio di Dante, perché mancava un legame con gli Alighieri di Firenze. Le due pergamene di Fermo vennero quindi dimenticate (sono assenti anche nel nuovo Codice Diplomatico Dantesco del 2016, la raccolta di tutti i documenti legali degli Alighieri, compresi quelli dubbi).
«Ma adesso», dicono Monaldi & Sorti, «grazie alla digitalizzazione degli archivi e delle biblioteche, abbiamo potuto fare riscontri su alcuni personaggi contenuti nelle pergamene di Allevi, soprattutto nella prima del 1306. Jacopo e gli altri contraenti firmarono in casa di un certo Gentile di Amoroso, a Montolmo (oggi Corridonia, MC). Ma Gentile da Montolmo faceva parte d‘una cerchia di marchigiani legati alla potente famiglia dei Da Mogliano, con i quali Dante era già in contatto a Firenze nel 1301, subito prima di essere esiliato. In più, i Da Mogliano erano in ottimi rapporti (in seguito anche matrimoniali) con gli Ordelaffi di Forlì, protettori e alleati di Dante e dei suoi Guelfi bianchi». Non solo. Monaldi & Sorti sono risaliti a una terza pergamena, già pubblicata nel XIX secolo ma poi anch’essa dimenticata, conservata nell’archivio di San Ginesio, la cittadina di Febo Allevi. Anche questa è del 1306, e vi figura un personaggio di Fermo, tale Gentile di Gualterone, che a Firenze sedeva con Dante nel Consiglio dei Cento. Con lui ritroviamo un certo Lambertino Ubertini, che è con Jacopo anche nell’altro atto del 1306 a Montolmo/Corridonia. I contatti marchigiani di Jacopo e Dante facevano parte insomma di una stessa cerchia. Monaldi & Sorti suggeriscono: «Forse il padre ha trovato una collocazione per il figlio, esiliato anche lui perché ormai maggiorenne. Nessun documento ci dice quando sono nati i figli di Dante. Noi seguiamo la ricostruzione secondo cui Jacopo aveva nel 1306 circa vent’anni». Dopodiché – ed è scoperta degli ultimi giorni – spunta, stavolta a Roma, una quarta pergamena che integra e conferma le altre tre, e ne allarga la portata.
Spiegano Monaldi e Sorti: «Febo Allevi sospettava che Dante avesse visitato l’abbazia cistercense di Chiaravalle di Fiastra: era il più grande monastero delle Marche e aveva uno scriptorium con parecchi volumi. Ipotesi lungimirante: due grandi dantisti di Cambridge e Oxford (Simon Gilson e Zygmunt Baranski) dicono che la Commedia era ben più vicina alla mistica dei cistercensi di san Bernardo di Chiaravalle che al freddo razionalismo di Aristotele e Tommaso d’Aquino, che a scuola ci hanno abituati ad “appiccicare” a Dante allontanandolo dalla poesia (san Tommaso disprezzava la poesia e i cistercensi). Esiste insomma un “Dante cistercense“, ben memore del fatto che i trovatori avevano copiato la loro poesia da quei monaci: un Dante che ha respirato la sognante atmosfera dell’abbazia di Fiastra; non si aveva però alcuna conferma dell’ipotesi di Allevi. La quarta pergamena ora la fornisce. È una delle celebri Carte Fiastrensi, le oltre tremila preziose pergamene dell’abbazia di Fiastra che nel Cinquecento vennero portate a Roma e furono ritrovate per caso tre secoli dopo, in uno sgabuzzino del Collegio Romano dei Gesuiti, e oggi si trovano all’Archivio di Stato di Roma». La famosa raccolta delle Carte Fiastrensi va dal Mille fino al XV secolo ed è uno spaccato della nascita dell’italiano, dell’uscita dalla gabbia del vecchio latino tardomedievale verso la libertà degli idiomi variegati dell’Italia di Dante.
«Ebbene, nella pergamena 157/195-3 delle Fiastrensi, un contratto immobiliare relativo ad una casa di Montolmo, ritroviamo quel tale Gentile di Amoroso che ospita Jacopo Alighieri nel 1306 a Montolmo in casa sua per la stipula di uno degli atti notarili, e vediamo che era in affari con i monaci di Fiastra, tutti riuniti nel parlatorio del convento sotto la guida all’abate Galvano». Tramite Gentile di Amoroso, quindi, Jacopo e Dante potevano avere accesso immediato all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra e agli scritti che custodiva. Proseguono Monaldi & Sorti: «Ci si è sempre chiesti: durante l’esilio, come faceva il povero Dante a consultare le miriadi di testi – anche rari e costosi – che cita nella Commedia? Ad esempio scritti di carattere apocalittico, come le opere di Gioacchino da Fiore, oppure alcuni commenti al libro biblico di Giobbe. Ebbene, a Fiastra queste opere c’erano. Lo sappiamo perché sono conservate alla Biblioteca Vaticana, e vi è annotata la loro provenienza».
Secondo i due autori, tutto questo è un passo in direzione della nuova lettura della Commedia venuta da Oxford e Cambridge: una lettura che rende Dante meno razionalista, tomista e aristotelico, e molto più vicino a quella religiosità mistica, intima, a quell’«intelletto d’amore» - non a caso cavallo di battaglia di Dante - che supera e contiene la razionalità, in cui erano maestri i cistercensi: non a caso il loro fondatore san Bernardo è posto da Dante al vertice del Paradiso, dove neppure Beatrice può più accompagnare il poeta. Concludono Monaldi & Sorti: «Come dicevano i medievali, siamo tutti nani sulle spalle di giganti. Anche noi siamo partiti dai grandi studiosi del passato. Ora crediamo si possa andare avanti. A San Ginesio ci sono circa duemila pergamene, studiate solo in piccola parte. Le Carte Fiastrensi sono oltre tremila. I prossimi anni possono offrire molte altre sorprese».
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