Questo è un Paese dove i vecchi si sentono immortali. E sono voraci. Non rinunciano a nulla. Non smettono mai di ballare. È una mattina grigia. All’Opera di Roma i sindacati hanno organizzato una giornata di protesta contro il decreto di riforma delle fondazioni liriche. Gianni Alemanno, sindaco di Roma, ha appena finito di parlare. Si muove per tornare al suo posto ed è in quel momento che l’eterna etoile lo intercetta. È il canto di rabbia del cigno. «Vergogna, vergogna, farabutto». L’accusa: «Per due anni non mi hai ricevuto».
La Fracci perde l’equilibrio. È rossa in faccia. Urla. Guarda Alemanno come un bestemmiatore, uno che insulta le dee, gli intoccabili, le leggende che si ribellano al tempo, in questa Italia dove il presente e il passato non passano mai. «Vergogna». Cosa ha fatto Alemanno? Ha scelto. Ha detto no alla Fracci. Non ha rinnovato il suo contratto di direttrice del corpo di ballo. La Fracci ha 74 anni, il suo mandato è scaduto dopo 10 anni, ma lei si sente inamovibile. Eterea ed eterna. «Io sono una danzatrice che ha portato la danza in tutto il mondo».
È vero. Ma che c’entra? È qui il problema. Le leggende, da queste parti, non sognano l’Olimpo, ma una poltroncina ben pagata. Alemanno non parla, più tardi dirà poche parole: «Rispetto la sua storia e la sua arte, ma il rapporto con lei è ormai superato. Non è lesa maestà voltare pagina». Alemanno non vuole fare la parte del nibbio in questa storia. Ma bisogna stare attenti ai cigni. La loro grazia non ne rispecchia il carattere.
I cigni sono aggressivi. Quando li guardi danzare sui laghi, belli, bianchi, divini, non immagini che possano difendere il territorio contro tutto e tutti, gonfiano le piume, il becco si alza verso l’orizzonte, con un urlo stridulo, cattivo. Dicono che quando i cigni invecchiano non si fanno mai da parte. Il lago è loro, per diritto divino, per conquista, per leggenda. Carla Fracci deve aver preso qualcosa da loro.
Qualche stagione fa Roberto Bolle disse una piccola verità. La Fracci dovrebbe essere meno egoista, mettersi da parte e lasciare la direzione del corpo di ballo di Roma. «Questo sistema frena il ricambio generazionale, condiziona la resa coreografica, il ritmo». La risposta della Fracci fu al veleno. Disse che Bolle era finito. Non cresce più. Ha perso equilibrio. Non ha credibilità. «Io non devo rendere conto a lui della mia carriera. Ho ancora molto da insegnare, e quando ballo mi ritaglio ruoli adatti. Se interpreto la Regina Madre nel Lago dei cigni non porto via niente a nessuno».
La regina madre, appunto. Questo dice tutto. Nessuno chiede a Carla Fracci di andare in pensione, ma solo di rispettare la sua leggenda. È Carla Fracci. Non le hanno strappato il futuro. Non cambia nulla nella sua dignità. Non si annoierà, visto che è assessore alla Cultura in una terra come la Toscana. Avrebbe potuto rispondere con un dignitoso silenzio, quello dei grandi che non hanno bisogno di restare incollati alle miserie umane. Lei ha scelto la danza del cigno. Incazzato. È la stessa cosa che fece tre lustri fa a Verona, quando lasciò l’Arena, e alzando il mento disse: «Andrò da Veltroni a denunciare una situazione inaccettabile». E Veltroni, allora vicepremier, pianse per la divina.
Non solo Fracci. In questa Italia ci sono troppi vecchi indignati. Monumenti con il posto fisso. Come Francesco Saverio Borrelli che si è sentito martire perché ha dovuto lasciare la presidenza del conservatorio di Milano. O come certi giornalisti e giornaliste che teorizzano il teorema: «mezzobusto una volta, mezzobusto sempre». E se li cacci dal video ti «sparano». Qualche volta ci vorrebbe un sor Ranieri capace di mandare in panchina tanti vecchi Totti. Ma questi miracoli accadono, qualche volta, solo la domenica.
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