Un maestro che il mondo ci invidia, con le sue opere d’arte (tali sono i suoi pregiatissimi strumenti a coda), amate da alcuni dei più grandi interpreti del pianismo mondiale: da Vladimir Ashkenazy a Radu Lupu. Eppure oggi, nel dramma della pandemia, è proprio questa sua unicità, che non permette di incasellarlo in alcuna categoria, ad averlo reso una sorta di fantasma per lo Stato. Con il rischio concreto e drammatico, di perdere con lui, un intero patrimonio di conoscenza. Anzi, un antichissimo e prezioso mestiere.
Luigi Borgato, è rimasto l’unico artigiano al mondo che costruisce pianoforti da concerto, dal disegno alla messa sul palcoscenico. Nel 2017 ha ideato e presentato anche il pianoforte da concerto più lungo al mondo, il Grand Prix 333, battezzato da un grande della musica come Quirino Principe.
Oggi cosa fa? «Il mercato è completamente fermo, un arresto che nella storia non c’era mai stato. I miei pianoforti sono frutto di una lavorazione che può durare anni, dalla ricerca del legname pregiato, come gli abeti armonici nei boschi di Passau, alla produzione delle lane per i martelletti. È una situazione che ci lascia costernati, spaesati. E che è aggravata dal fatto che, come si sa, sono fermi i concerti e spesso pure le registrazioni: palcoscenici sui quali io porto i miei pianoforti. Ancora non sappiamo se il prossimo autunno si ripartirà. Chi ha coraggio ora di pianificare una stagione?».
L’ultimo concerto? «Il 23 febbraio 2020 per un’associazione del Vicentino. Poi basta, se non un noleggio, lo scorso 25 ottobre 2020, per una fondazione (la Ghirardi). Ma il 26 ottobre hanno richiuso tutto. Due appuntamenti in un anno. Durante l’estate noi non mettiamo i nostri pianoforti, all’aperto non si possono portare»
La sua è una professione unica, come sta affrontando questa crisi? «Sì, è unica come lo sono tante piccole eccellenze artigiane in Italia. Al mondo non esistono altri costruttori artigianali di pianoforti da concerto di questo valore. Ma siamo, sono, una categoria completamente sconosciuta dallo Stato. Se escludiamo qualche singolo illuminato amante della musica, noi per tutto il resto della politica non esistiamo...».
E concretamente, che tipo di aiuti ha ricevuto fino ad ora? I suoi pianoforti, vere opere d’arte, hanno costi di produzione altissimi... «Nulla, se non quei due assegni da 600 euro ad aprile e maggio 2020. Ma poi zero. Sono considerato se va bene, e lo dico con enorme rispetto, un lavoratore del legno. Non esisto».
Si rischia di perdere con lei un patrimonio unico. «Spesso dall’estero mi dicono: voi dovreste essere tutelati come i diamanti, rappresentate delle punte rare. E si sorprendono che non esista alcun tipo di catalogazione. Ma certo, ci sono un bagaglio e una conoscenza che ora rischiano di scomparire. Una distrazione che a mio avviso in alcuni Paesi, come la Germania, non c’è. Ma che qui rischia di minare ciò che l’Italia ha di più prezioso».
Quale potrebbe essere la soluzione? «In primis, è chiaro che dovrebbe essere l’istituzione stessa a pensare di tutelare i mestieri d’arte. Ma, in questo momento, credo sia giusto guardare anche al privato. È stato un anno straordinario per la borsa, lo ha detto anche Forbes. Insomma, chi è nelle condizioni, potrebbe investire davvero nel made in Italy. Penso all’idea di investire sui prodotti di noi artigiani. Vorrei rivolgere davvero un appello: donare un prodotto importante dell’artigianato culturale italiano a una qualsiasi istituzione, fondazione, scuola. Un gesto di grande intelligenza che potrebbe in un solo momento salvare un mestiere antico e contribuire alla crescita di chi impara o di chi suona».
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