sabato 26 maggio 2018

Un nostro chiodo fisso: L'italianità non è un vezzo! ( da Suono Hi-Fi- marzo 2015)

                                     Barenboim via dalla Scala manda un saluto a Muti
Terminato il Fidelio inaugurale della stagione milanese, Barenboim – che a detta del quotidiano Repubblica è stato ribattezzato affettuosamente dai milanesi “BimBumBam” a causa delle troppe B del suo cognome, che sono appena due – ha fatto alcune dichiarazioni. Innanzitutto, rivolgendosi a chi lo ha accusato, d’accordo con Lissner, di trascurare il repertorio operistico italiano (Verdi, Bellini, Donizetti, Rossini e mettiamoci anche Puccini, perché no?), ha risposto che “l’italianità” non è una questione di passaporto. Ovvero, che si può fare Opera italiana, o “all’italiana”, anche eseguendo Wagner, Mozart, Strauss, Beethoven, Bizet. In che modo? Ad esempio, innestandovi la grande tradizione storica e musicale del nostro Paese, imprescindibile. E che, di conseguenza, chi non esegue alla Scala nessuno o quasi dei grandissimi autori sopra citati, non può essere accusato di anti-italianità.
È una teoria che zoppica, come zoppica altrettanto un’altra teoria, che da questa direttamente discende, e cioè che la venuta di Barenboim e Lissner alla Scala, dopo l’epoca Muti, sia servita a portare un po’ di Europa in Italia, secondo l’interpretazione di qualche giornale che ha scritto che con la coppia “estera” alla Scala siano arrivati anche i grandi nomi della regia internazionale. Vabbè, ma è stata vera gloria? Barenboim e i giornalisti fiancheggiatori del direttore argentino e di Lissner sostengono che era necessario; noi no, perché pensiamo che nell’Opera lo spettacolo conti – e come potrebbe essere diversamente? – ma conti innanzitutto la musica; questo ci sembra ancor più vero quando si vedono regie e ambientazioni che lasciano sinceramente sbalorditi, per la loro estraneità all’opera rappresentata (quella del Fidelio, per restare in tema, non lo era del tutto, sebbene mantenendo l’ambientazione in un carcere avrebbe sottolineato l’inferno che in quei luoghi si vive, e in Italia più che in altri paesi d’Europa).
Per sottolineare che l’appartenenza a una nazione non è legata al passaporto, Barenboim ha detto che se avesse dovuto dirigere solo musica del suo paese per farla conoscere nel mondo, avrebbe diretto e fatto eseguire solo il tango, che è la bandiera musicale argentina. E poi ha invitato tutti in Italia – ma forse si rivolgeva innanzitutto al ministro Franceschini, l’unico con una carica istituzionale di peso, oltre al presidente del Senato, Grasso, presente alla prima milanese – a continuare a impegnarsi affinché l’Italia, “come dice Riccardo Muti, non diventi da paese della musica, il paese della storia delle musica”. Barenboim sottoscrive quanto dice Muti ma in tutti questi anni non ha mai neanche pronunciato il nome del suo predecessore alla guida della Scala; ricordarsene solo ora appare un po’ ruffiano. E ha aggiunto, rivolto a chi lo accusa di non aver mai diretto un’opera del grande repertorio italiano a Milano, che lui questo repertorio lo fa a Berlino. Bella scusa.
In realtà qualcuno ha detto e scritto negli anni passati che la ragione del suo mancato impegno nel repertorio italiano a Milano si giustificava con la mancanza di sicurezza in tal repertorio; che a Berlino – aggiungiamo noi – sentiva di avere e a Milano no. Perché Berlino non è Milano, e il suo teatro berlinese non è la Scala, dove non gli avrebbero fatto nessuno sconto in fatto di interpretazione e tradizione esecutiva del grande melodramma italiano. In una parola, in fatto di “stile”. E lasciamo in pace Toscanini, tirato in ballo per l’occasione, quando diceva che “la tradizione è l’ultima cattiva interpretazione”. Altri tempi, altre circostanze. Altro direttore, senza offesa per nessuno.
Oggi, il repertorio di alcuni direttori presenta casi assai strani che meritano attenzione. Cominciamo da Claudio Abbado, che non ha mai diretto né voluto dirigere Puccini (invece Roberto, suo nipote, lo dirige eccome). Non è strano? Per noi lo è, come lo è anche per uno studioso come Michele Girardi, valoroso pucciniano, al quale avevamo chiesto tempo fa di scrivere per la nostra indimenticata rivista Music@ qualcosa sull’argomento, anche in considerazione del fatto che il suo corso all’Università avrebbe avuto come tema “Abbado alla Scala”. Girardi non ce l’ha scritto, poi Music@ è finita, e la ragione “musicologica” (ma noi pensiamo piuttosto “ideologica”) non l’abbiamo capita. Per noi si tratta di vezzi ingiustificati, privi di qualunque ragionevolezza. L’altro caso, altrettanto clamoroso e ancora di casa nostra, è quello di Giuseppe Sinopoli che non ha mai voluto dirigere Strawinsky, preferendogli sempre e comunque Schoenberg, forte del verbo adorniano (Strawinsky, la reazione; Schoenebrg, la rivoluzione; passato contro futuro). E, per tornare a Puccini, oggi che Pereira, d’accordo con Chailly, sta pensando, nei prossimi anni, di programmare alla Scala tutte le opere di Puccini, noi siamo assolutamente d’accordo con lui.
Ci sono altrettanti casi in cui celebri direttori non hanno mai diretto alcuni autori ma per ragioni condivisibili, non come quelle di Abbado, Sinopoli e anche Barenboim. Ad esempio, quando un direttore, guardando alla grande tradizione interpretativa di alcuni autori, ritiene di non saper aggiungere a essa nulla di nuovo o di diverso, o quando li sta ancora studiando, o quando, più semplicemente o praticamente, si dedica a un diverso repertorio, giustificandosi che non si può fare tutto e bene, e che altri lo fanno meglio. Come Boulez, che ha deciso di dedicarsi completamente alla musica moderna e contemporanea. O come Pappano, che ha un repertorio vastissimo, al quale ogni anno regolarmente aggiunge un titolo nuovo: ad esempio, ha proposto Bach, da tempo studiato, solo negli ultimi anni (Passione secondo Matteo e Messa in si minore), parallelamente al repertorio “belcantistico” o “comico”, ai quali si è dedicato solo negli ultimi anni. Mai però opponendo, durante l’attesa, ragioni ideologiche come per tanti anni se ne sono sentite a proposito di autori come Mascagni o Leoncavallo.
Sebbene non si possa negare all’interprete lo stesso diritto che si riconosce a un ascoltatore, e cioè quello di avere delle preferenze – noi, ad esempio, amiamo immensamente Bach; ma se dovessimo scegliere che musica portarci su un’isola deserta, probabilmente opteremmo per certe pagine di Schumann (Scene infantili), rinunciando a qualunque altra. In questo caso, però, si tratta solo dei gusti personali di un ascoltatore, mentre l’interprete ha altri e più pesanti obblighi nei confronti sia della comunità musicale che della musica stessa.

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