Lo «stupore» soffocato a malapena e un un’indicazione categorica, «tirare dritto», sottraendo il governo dalla liturgia di "verifiche politiche" i cui benefici svaniscono dopo pochi giorni. Mario Draghi reagisce in un modo diverso dal solito all’ennesimo strappo parlamentare.
Incassa il risultato formale, ovvero la bocciatura dell’emendamento con cui Lega, Forza Italia e Fdi volevano stralciare la riforma del catasto dalla delega fiscale, e lascia perdere ogni altra considerazione. Con la consapevolezza che in commissione Finanze della Camera si è consumata l’ennesima "guerra delle bandierine": stavolta è stato il centrodestra di governo, Salvini e Berlusconi in testa, a decidere di giocare col fuoco sapendo però di avere sulla testa l’ombrello protettivo della crisi internazionale, sapendo cioè che l’altro pezzo della maggioranza, Pd-M5s-Leu, avrebbe evitato una crisi che sarebbe apparsa incomprensibile al mondo intero. Ma se Draghi può consentirsi di «tirare dritto» e sostanzialmente attendere i prossimi eventi (il voto in aula alla Camera dal 28 marzo e il successivo, decisivo passaggio al Senato), Letta e Conte non possono assecondare la sua strategia e reagiscono con veemenza.
«Fallito il tentativo di far cadere il governo in uno dei giorni più drammatici della storia dell’umanità», tuona il segretario dem. «Battaglia inopportuna – dice il presidente M5s riferendosi a Lega e Fi –, noi non consentiremo che ci sia una sovrattassa su immobili ed edifici».
I fatti. Era ieri l’ultima giornata utile per trovare, in commissione Finanze a Montecitorio, un’intesa sull’articolo 6 della delega fiscale, inerente il riordino del catasto, che non fosse un «compromesso al ribasso». Si propongono di trovare punti di contatto sia il presidente della commissione Luigi Marattin, renziano, sia i componenti di Forza Italia. Ma il testo degli "azzurri", a parere di Palazzo Chigi, rappresentato nelle trattative dal capo di gabinetto del premier, Antonio Funiciello, risulta riduttivo rispetto alle ambizioni originarie.
I berlusconiani cercano di ridurre il perimetro del riordino ai beni non accatastati, l’esecutivo tiene duro. Prima che in commissione si annunci il mancato accordo, Draghi prova a convincere in prima persona Silvio Berlusconi, che però lo gela: «La sinistra si conferma il partito delle tasse, mai nuove imposte sulla casa». A quel punto non c’è niente da fare.
Si torna in commissione, il centrodestra propone lo stralcio che non passa per un voto, 22 a 23. Salvini commenta, mentre i suoi deputati annunciano il «mani libere» sul fisco: «Inspiegabile l’insistenza del governo, chiedo un incontro a Draghi». Mentre Meloni gongola e si aspetta che Lega e Fi tengano duro in aula e, soprattutto, al Senato: «Il governo è a trazione Pd-5s...», li avverte.
Il premier mette in tasca il risultato e non fa filtrare nemmeno irritazione, semplicemente una "ricapitolazione" della vicenda.
Primo, non è comprensibile l’atteggiamento di chi - Forza Italia, in questo caso – vota un testo in Cdm e lo rinnega in Parlamento (i ministri della Lega non avevano votato la delega fiscale proprio per via del catasto).
Secondo, spiega Palazzo Chigi, il riordino è finalizzato principalmente all’emersione del nero da cui deriveranno nuove risorse anche a vantaggio di chi già paga tutto.
Terzo, in Italia la prima casa non è tassata.
Quarto, il riordino sarà completato nel 2026. Quindi, Draghi ha esplicitato che eventuali aggiustamenti fiscali successivi al riordino passeranno comunque attraverso il Parlamento.
E tanto sarebbe bastato, a suo parere, per evitare un’altra giornata di pre-crisi.
Conti da regolare, comunque, ne resteranno. Soprattutto in Forza Italia. Il ministro Brunetta considera «incomprensibile» il sì del suo gruppo parlamentare allo stralcio. Un altro buco che si crea tra il partito del Cav e i ministri che lo rappresentano in Cdm. Le ferite, tutte, si riapriranno tra poche settimane nell’aula di Montecitorio. Ma già ci si prepara allo scenario in cui, a ridosso delle amministrative, proprio il passaggio della delega fiscale e del catasto al Senato possa essere il bivio dell’attuale governo e della maggioranza che lo sostiene.
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