La Russia del Novecento è costruita su due assedi. Due assedi diversi e anzi opposti a quello dell'ucraina Mariupol. Di più: Mariupol appare come la negazione delle epopee di Stalingrado e Leningrado, i miti della Grande guerra patriottica, fondamento dell'identità del Paese, che Vladimir Putin ha riportato al centro della narrazione popolare e a cui è legato anche per la sua storia familiare.
Sia nell'immaginario sovietico sia in quello della Russia di oggi sono gli assedi di Stalingrado e Leningrado i momenti in cui il popolo ha visto esaltare la sua capacità di sacrificio, fino ad arrivare all'eroismo di cui è capace solo chi lotta per il bene contro il male. «Vita e destino» di Vassilij Grossman, il più grandioso romanzo russo del Novecento, ruota tutto intorno alla battaglia di Stalingrado e la parte più intensa si svolge nei cunicoli della città presa d'assalto.
Nelle fogne, negli scantinati dell'acciaieria «Ottobre Rosso», della fabbrica di trattori «Barricata» l'esercito hitleriano e i soldati dell'Armata rossa si affrontano a colpi di bombe a mano e di lanciafiamme. Si combatte strada per strada, muro dopo muro: i cecchini insieme ai civili che non sono riusciti a scappare. Sembrano cronache di questi giorni ed è un racconto che ai russi rimarrà precluso a lungo: il libro viene pubblicato nel Paese solo in tempi di perestrojka, nel 1989.
Ma già nel 1946 Viktor Nekrasov pubblica «Nelle trincee di Stalingrado». Lui ci è stato, in città ha combattuto a lungo, in battaglia è rimasto ferito. Ne ha viste troppe per dipingere la guerra in maniera edulcorata, il tono è duro, impietoso. Ma a Stalin piace, fa assegnare all'opera il premio che porta il suo nome: segue la pubblicazione in decine di milioni di copie e la traduzione in una quarantina di lingue. Stalingrado ha per sempre un posto nella storia e nella cultura non solo dei russi.
Ma nell'animo di Vladimir Putin è l'altro assedio, quello di Leningrado, a pesare di più, è lui stesso a parlarne in molte interviste. Nel settembre del 1941 la città dei suoi genitori viene chiusa in una morsa dalle truppe naziste. Solo nel gennaio del 1944 i soldati russi la libereranno. In mezzo, più o meno 900 giorni in cui la popolazione viene falcidiata dalla mancanza di cibo, dalle malattie, dai bombardamenti. I morti di inedia saranno 800mila, forse un milione. In Occidente tutti conosciamo il Diario di Anna Frank, in Russia è lo stesso per quello di Tanya Savicheva. Nel quaderno la ragazza, 13 anni, segna una dopo l'altra le morti dei suoi familiari. Le ultime righe sono terribili: «La mia famiglia è morta. Sono morti tutti. Rimane solo Tanya». Nemmeno lei sopravviverà.
Ma per Putin il legame con la vicenda è ancora più personale. Il papà, Vladimir come lui, intrappolato in città con tutta la famiglia, rimane ferito in uno dei combattimenti difensivi; è grave, resta per ore sulle rive della Neva. È condannato a morte sicura, un vicino di casa se lo carica in spalla e attraversa a piedi il fiume ghiacciato portandolo in salvo. Trascorrerà molti mesi in ospedale. La mamma, Maria, un giorno d'inverno è per strada a cercare qualcosa da mangiare. Sviene per la debolezza, la credono morta e la ammucchiano insieme ad altri cadaveri ghiacciati. I suoi lamenti la salveranno.
Vladimir junior, classe 1952, è ancora di là da venire, ma con i suoi genitori c'è il fratello maggiore Viktor. Non ha nemmeno 10 anni. Presto si ammala: nel giugno del 1942, senza cure e un'alimentazione adeguata, muore di difterite. Vista la situazione non gli trovano nemmeno una tomba: viene sepolto in una fossa comune al cimitero Pisakaryovskoye insieme ad altre 470mila vittime dell'assedio. È naturale chiedersi se a Vladimir, in questi giorni, capita di ricordarlo.
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