Perché ci si dovrebbe occupare d’orchestra
d’opera? Ovviamente, la domanda sfiora la provocazione. Ma di fatto, a lungo gli studiosi del melodramma hanno senza particolari complessi quasi
del tutto ignorato una delle componenti pur costitutive dello spettacolo, ovvero l’orchestra. Certo le
eccezioni non mancarono - come fu il caso del napoletano Prota Giurleo che sentì quasi l’obbligo
patriottico di ricostruire la storia dell’orchestra del
San Carlo - ,
1 ma la tendenza fu abbastanza generale. E in fondo stupisce assai poco: tale approccio
non era che il riflesso di un impianto estetico fondato sulla priorità, se non esclusività (o almeno
credute tali) del canto: il testo veniva percepito
come l’elemento costitutivo di questa forma di
spettacolo. Pareva, dunque, ovvio occuparsi del libretto, della parola, del rapporto tra testo e musica,
e ancora della costruzione melodica, degli ornamenti e delle varianti - tanto di segmenti quanto
d’intere sezioni se non di pezzi - ma certo l’attenzione all’orchestra di cui si continua a dire correntemente che ‘accompagna’ i cantanti è molto meno
scontata.
Eppure la coscienza dell’importanza dell’orchestra per un’opera era ben vivida nei trattatisti settecenteschi. A questo riguardo, è da citarsi
almeno la voce ‘orchestra’ nel Dictionnaire de musique (1768) di Rousseau e i lunghi capitoli sull’orchestra e sugli orchestrali negli Elementi
teorico-pratici di musica (1791-96) di Francesco
Galeazzi.
Se in tempi recenti siamo tornati ad occuparci d’orchestra d’opera è probabilmente sulla
spinta delle ricerche sulla drammaturgia musicale.
Parrebbe un paradosso e invece non lo è. L’assunto
siglato da Carl Dahlhaus è chiarissimo. Il concetto
di ‘drammaturgia musicale’- scrive Dahlhaus -
lungi dall’essere innocentemente descrittivo, sottintende una tesi nient’affatto ovvia. La tesi è questa: in un’opera, in un melodramma, è la musica il
fattore primario che costituisce l’opera d’arte
(opus), e la costituisce in quanto dramma. Tale riflessione sulla drammaturgia musicale, che
ha profondamente influenzato pure molti musicologi italiani, ha inevitabilmente condotto ad una
nuova riconsiderazione dei parametri dello spettacolo operistico. Ne è scaturita non solo una severa
rimessa in discussione della librettologia, ma anche
un monito contro la tentazione di valutare l’opera
sulla base di un solo parametro. ‘E’ la musica il
fattore primario’: la musica appunto e non solo il
canto.
Che vi sia una connessione tra gli studi di drammaturgia musicale e quelli recentissimi sull’orchestra
d’opera è, ovviamente, un punto di vista soggetto a
discussione; pare, invece, inconfutabile l’attenzione crescente riservata all’orchestra d’opera di
cui il gruppo di lavoro, incoraggiato nell’ambito
dell’attività dell’ESF, è stato tanto il punto d’arrivo
quanto il motore di successive ricerche. Se i tre
volumi scaturiti sono incentrati sull’Ottocento, la
summa riunita da John Spitzer e Neal Zaslaw completa invece il quadro per l’orchestra tra Sei e Settecento.
Il caso di Monteverdi è ovviamente centrale in una
ricerca sull’orchestra dell’opera delle origini. La
sua posizione dominante in tale campo di studi è
doppiamente ovvia: da una parte in quanto compositore “maggiore”, e per altro tra i primissimi a cimentarsi con il nuovo genere di “teatro in musica”,
e d’altra parte per la cura che nutrì proprio per l’orchestra. È noto infatti che Monteverdi indicò con
particolare precisione gli strumenti nella partitura a
stampa dell’Orfeo dove gli “Stromenti” da impiegarsi - non necessariamente i medesimi di quelli
effettivamente indicati successivamente nel corso
della partitura - compaiono accanto ai ‘Personaggi’:
‘duoi gravicembali, duoi contrabassi de
viola, dieci viole da brazzo, un arpa doppia, duoi
violini piccoli alla francese, duoi chitaroni [recte: tre], duoi organi di legno, tre bassi da gamba, quattro tromboni [recte: cinque], un regale [più d’uno]
duoi cornetti, un flautino alla vigesima seconda
[recte: due], un clarino con tre trombe sordine’ .
Aggiungiamo pure: ‘duoi violini ordinari da braccio’ e ‘ceteroni’.
Gli strumenti rispondono ad evidenti criteri espressivi e simbolici, come è il caso dei tromboni che
evocano la dimensione infernale. Organo e chitarrone è l’organico su cui canta all’atto II la Messaggera, poi utilizzato da Orfeo (‘Tu se’ morta...’) e i
due Pastori nel coro finale (‘Chi ne consola...’). Ritroviamo ancora l’organo di legno associato ad
Orfeo nell’atto III. Le didascalie sono pure particolarmente dettagliate ed emerge l’evidente preoccupazione di evocare precise atmosfere. Già Doni
cita nel Trattato della musica scenica come esempi
degli ‘odierni musici’ i casi della Rappresentazione
d’Anima et Corpo di Cavalieri e dell’Orfeo di
Monteverdi i cui autori ‘pare che [...] diano per
consiglio di mettere in opra quasi ogni sorte di
questi instrumenti, e in gran numero’ .
In realtà, l’Orfeo di Monteverdi si riallaccia alla
tradizione dell’intermedio rinascimentale di cui
prolunga le convenzioni in materia strumentale. La
nuova orchestra veneziana della seconda metà del
Seicento si barricò intorno ad un numero limitato
di strumenti: la limitazione fu tanto numerica
quanto coloristica: il monocromatismo prese rapidamente il posto del policromatismo rinascimentale. Secondo Prunières, l’orchestra del San
Cassiano disponeva di sedici strumentisti; in realtà,
gli organici ricostruiti soprattutto sulla base dei documenti d’archivio lascerebbero pensare ad un numero ancor più ridotto. Sulla base dei documenti
di Marco Faustini, impresario veneziano, Beth L. e
Jonathan E. Glixon hanno rintracciato la presenza
constante, negli anni 1650-1660, degli strumentisti
seguenti: 2 (o 3) clavicembali, 1 tiorba, 2 violini,
1 violone. Un caso celebre è quello della tromba:
è sì evocata dai libretti, ma di fatto sono gli archi a
realizzarne le figurazioni marziali. Il caso del Nerone di Carlo Pallavicino (1679) per
cui stando ad una cronaca del Mercure galant furono impiegati quaranta strumentisti parrebbe o
un’eccezione o il punto d’avvio di una nuova sensibilità che porterà ad incrementare gli organici
strumentali.
Perché l’orchestra seicentesca conobbe una fase di semplificazione rispetto agli organici precedenti? Gli storici della musica non
concordano sulle motivazioni.
L’apertura dei teatri
pubblici potrebbe avere spinto gli impresari a fare
economie sull’orchestra, sapendo invece di non potere lesinare mezzi sulla composizione della troupe
dei cantanti. Oppure, assistiamo, proprio
con Monteverdi, all’emergenza di una nuova
estetica fondata sull’espressione di passioni attraverso nuovi codici senza il ricorso al simbolismo
strumentale.
È in particolare la tesi di Robert L.
Weaver che fa coincidere il nuovo idioma con il
Combattimento di Tancredi e Clorinda. Abbiamo tentato di delineare brevemente l’evoluzione dell’orchestra di Monteverdi , mettendo insieme opere tanto distanti tanto per il contesto
estetico quanto per le condizioni produttive. Infatti, è fin troppo noto - e non vale la pena di ritornarci - che l’Orfeo da una parte e, poniamo,
L’incoronazione di Poppea dall’altra, appartengono non solo a due periodi di creazione di Monteverdi, ma a due vere fasi storiche: l’uno si
riallaccia al contesto privato con prodotti spesso
celebrativi che la musicologia anglosassone ha indicato come ‘festival operas’ , l’altra al contesto
dei teatri pubblici. Ovvero, due mondi. Il titolo
scelto da Richard Taruskin, ‘Opera from Monteverdi to Monteverdi’ , non ha nulla di provocatorio. E non stupisce che Ellen Rosand consacri il
suo recentissimo lavoro alle opere del periodo veneziano, senza curarsi della produzione di Mantova, appunto perché allogena.
Ma poniamo allora, quasi in conclusione, una domanda che avrebbe rischiato di apparire solo come
una provocazione gratuita all’inizio di questo rapido excursus: nel caso dell’Orfeo, si può parlare
in maniera propria d’orchestra? Ovvero, si ha già
nell’opera del 1607 un’orchestra secondo le nostre
prerogative moderne? Parrebbe proprio di no.
Gli studi di Nathan Broder e più recentemente di
Neal Zaslaw insieme alle indagini etimologiche
di Martin Staeheling concludono che quella
dell’Orfeo è un’orchestra solo nel senso etnomusicologico, ovvero come insieme di strumenti, nella
cui categoria sono inglobati i consorts rinascimentali.
L’orchestra vera e propria si definisce progressivamente solo negli ultimi decenni del
Seicento: la sua ‘nascita’ non corrisponde ad un
momento identificabile né nel tempo né in un’area
geografica, ma essa è piuttosto un processo che occupò ampiamente tanto il Seicento quanto il Settecento. Sulla base tanto di osservazioni
d’orchestrazione (la centralità della famiglia dei
violini), di scrittura, quanto d’organizzazione interna (la presenza di un leader), Zaslaw ha indicato
otto parametri che permettono di definire un’orchestra. E, come è stato più volte, ripetuto, l’Orfeo
non corrisponde affatto a tale orchestra ‘moderna’;
pure le opere veneziane non rispondono pienamente a tali parametri, tuttavia costituiscono un avvicinamento verso la nuova idea d’orchestra imposta dai teatri pubblici.
Va, in sintesi, notato che il sistema veneziano dopo
l’apertura, nel 1637, del San Cassiano ad un pubblico pagante contribuì sensibilmente alla definizione di un nuovo assetto d’opera i cui effetti
sull’orchestra furono inevitabili.
Innanzi tutto,
venne favorita la stabilità degli strumenti, mentre
le troupe dei cantanti variavano sensibilmente da
una stagione all’altra.
Inoltre, il compositore assunse un ruolo di direzione, come per esempio fu il
caso di Cavalli al San Cassiano.
Infine, s’istallò
definitivamente l’abitudine, mai più rimessa in discussione nel corso dei secoli, di un trattamento
pecuniario estremamente vantaggioso per i cantanti
a discapito degli strumentisti.
Si diceva, due mondi. Orfeo e L’incoronazione di
Poppea corrispondono a due capitoli distinti ed indipendenti della storia dell’opera. Anche la concezione dell’orchestra non poteva essere la medesima.
Proprio mentre le ‘esecuzioni storicamente
fondate’ s’impongono, valeva probabilmente la
pena di ricordare che evocare una presunta ‘orchestra monteverdiana’ è anacronistico o per lo meno
dubbio. Innanzi tutto perché l’orchestra non ha assunto ancora né le fattezze né le funzioni che noi
oggi siamo soliti attribuirle; e poi perché l’orchestra di Mantova e quella di Venezia, pensate da
Monteverdi, non possono in alcuno modo essere
confuse: l’una era lussureggiante, l’altra essenziale. Dunque, nel caso delle due opere monteverdiane per Venezia, l’aggiunta di strumenti a fiato
pur non indicati in partitura o l’incremento indebito di archi, a cui si lasciano andare alcuni direttori odierni pur attenti ai codici della prassi
esecutiva “originale”, non hanno alcuna legittimità
storica.
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