giovedì 29 dicembre 2022

Sono gli snob e i radical chic ad usare termini anglofoni, secondo il ministro Sangiuliano che ne fa uso, come pure fanno soprattutto gli ignoranti che non conoscono l'italiano (da Il Riformista, di Antonio Lamorte)

 C’è stato un tempo in cui in Italia non si doveva dire “bar” ma “mescita”, “acquavite” invece di “whisky”, non “cocktail” ma “bevanda arlecchina”. E oggi c’è il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, giornalista, napoletano, scrittore, che, in un’intervista al quotidiano Il Messaggero sull’idea lanciata dal giornale romano, e che è diventata anche oggetto di una proposta di legge, di inserire l’Italiano nella Costituzione, ha dichiarato come “un certo abuso dei termini anglofoni appartenga a un certo snobismo, molto radical chic, che spesso nasce dalla scarsa consapevolezza del valore globale della cultura italiana”.

Et voilà: ci ha messo pochissimo per entrare in tendenza sui social, oggetto di indignazione, sfottò e meme. I più veloci hanno fatto notare come lo stesso Sangiuliano nelle sue dichiarazioni abbia utilizzato più di una parola straniera. “Radical chic”, non a caso utilizzata dagli avversari per accusare di snobismo la sinistra, e “snobismo” dall’inglese “snob”. Altri ancora hanno fatto notare come la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si sia presentata all’insediamento come un’“underdog” e come Adolfo Urso sia stato nominato ministro delle imprese e del made in Italy. In tanti infine hanno ricordato quell’epoca in cui le parole straniere venivano tradotte o italianizzate.

Ovvero l’aspetto più noto della politica linguista lanciata dal fascismo una volta arrivato al potere in Italia. Come ha ricostruito Valeria della Valle su Treccani: “Con la legge dell’11 febbraio 1923 il purismo di matrice nazionalista e irredentista subì un’ulteriore impennata, imponendo una tassa sulle parole non italiane. Ebbe inizio così una nuova campagna di purismo xenofobo che riempì le pagine dei quotidiani e delle riviste”.

Quell’ostilità non risparmiò i cognomi, italianizzati, le insegne in lingua straniera, il “lei” considerato troppo “femmineo” e “straniero” da sostituire con il “tu” o il “voi” a seconda del grado di confidenza con l’interlocutore. La Reale Accademia d’Italia fu incaricata di tradurre o italianizzare le parole straniere in nome della difesa dell’italianità. La politica linguistica continuò contro i dialetti e le minoranze. Non è questo quello di cui ha parlato o cui faceva riferimento Sangiuliano: ma il collegamento è venuto spontaneo a tanti, ne hanno scritto e lo hanno ricordato sui social.

“Valorizzare e promuovere la nostra lingua non significa ignorare il mondo che ci circonda. Non significa, cioè, in alcun modo che in un mondo globalizzato non si debbano studiare e apprendere bene altre lingue, a cominciare da quella inglese, come diceva Tullio De Mauro il multilinguismo ci aiuta a gestire la complessità del presente”. Il ministro ha riconosciuto come “la consacrazione della lingua nazionale è in molte Costituzioni, di gran parte dei Paesi non solo europei” come la lingua sia “l’anima della nostra nazione, il tratto distintivo della sua identità. Il secolo scorso insigni studiosi del calibro di Croce, Gentile, Volpe hanno a lungo argomentato sulla circostanza che l’Italia sia nata molto prima della sua consacrazione statutaria e unitaria. L’Italia nasce attorno a quella che fu definita la lingua di Dante".

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