Un contenuto “virale”. Un post che è diventato “virale”. I meccanismi della "viralità" online (e non solo). Una formula, quella del “going viral”, mai più inadatta che durante una pandemia come quella del coronavirus. Tanto che in molti, a partire da chi fa informazione, stanno pensando di lasciarla stare. Di rinunciare definitivamente all’uso metaforico del termine. Quando viene cioè collegato a un elemento della cultura popolare, ma anche un qualsiasi articolo, un meme, un post su Facebook o Twitter, un video su YouTube che abbia visto moltiplicare in modo esponenziale la propria circolazione fra social e altri canali digitali. Per finire sulle bacheche, nelle chat e sugli smartphone di mezzo mondo, o quasi.
Se lo chiede per esempio la Technology Review del Mit di Boston, il prestigioso istituto di ricerca del Massachusetts. Spiegando come utilizzare quella formula nel bel mezzo di un’epidemia come quella da Sars-Cov-2 possa rivelarsi inadatto. Peggio, dannoso se quel contenuto che si viralizza contiene bufale e sciocchezze su quello stesso, delicato argomento
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