E quindi c’è qualche banca che alla fine la pagherà, questa tassa sugli extraprofitti della discordia, provvedimento annunciato dal governo in estate con squilli di tromba e appassito in autunno come una foglia ingiallita? Dopo che protagonisti come Unicredit, Intesa e Mediobanca hanno scelto l’opzione B, l’accantonamento dell’extra come riserva, preferendolo, guarda caso, al pagamento della tassa, è davvero ipotizzabile che altri istituti, invece, scelgano la gabella? Nata male, gestita peggio tra mille polemiche e la prevedibile opposizione del mondo bancario, la tassa sarebbe dovuta servire, nelle intenzioni del governo, a formare un tesoretto utile anche per alcune misure della Legge di Bilancio. Tra queste, il taglio delle imposte per le famiglie e il sostegno ai mutui prima casa: rischia invece di finire in un nulla di fatto.
Con l’impennata dei tassi di interesse, questo il pubblicizzato ragionamento di partenza, le banche quest’anno hanno guadagnato di più, ad esempio dall’innalzamento delle rate dei mutui a tasso variabile, senza essere altrettanto solerti nell’aumento della remunerazione dei depositi dei loro clienti. Da un lato, insomma, mutui e prestiti hanno preso a costare di più, dall’altro le banche non hanno fatto guadagnare altrettanto ai propri risparmiatori. Di “equità sociale” avevano quindi parlato esponenti dell’esecutivo per giustificare il prelievo addizionale da far pagare alle banche, annunciato ad agosto e in seguito profondamente modificato. Modificato al punto tale che, appunto, nessuna banca, o quasi, lo pagherà.
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Tutti e tre gli istituti bancari, peraltro, hanno tenuto a sottolineare che il mancato pagamento dell’imposta non si tradurrà in un mancato impegno nel sociale. Intesa Sanpaolo e Mediobanca lo hanno fatto scegliendo nelle loro rispettive note addirittura la stessa identica formula: la banca «continuerà a supportare iniziative per far fronte ai bisogni sociali, contrastare le disuguaglianze e favorire l'inclusione finanziaria, sociale, educativa e culturale». Simile l’impegno di Unicredit, che parla di «supporto del Gruppo alle famiglie e alle comunità durante la crisi del costo della vita», che «rimane un imperativo». Sono le banche, insomma, potendolo fare, a voler decidere verso quali iniziative socio-culturali impegnarsi, implicitamente “disconoscendo” l’utilità della tassa per i fini di «equità sociale» con cui era stata presentata.
In origine la tassa, introdotta dal governo con un decreto-legge dello scorso 7 agosto, avrebbe dovuto colpire i margini di interesse delle banche. Il risultato è stato, tra l’altro, di innervosire i mercati oltre che di incassare la bocciatura della Bce: «È necessaria una chiara separazione tra la natura straordinaria dei proventi e le risorse di bilancio di un governo per evitarne l’uso a fini generali di risanamento», aveva detto tra l’altro la Bce. Le modifiche introdotte durante l’iter parlamentare, hanno offerto come alternativa alle banche un incremento della loro patrimonializzazione. Le attuali previsioni di gettito fiscale, pari a 3 miliardi e 248 milioni di euro, ovvero la somma massima che il fisco potrebbe teoricamente incassare dopo le modifiche, si stanno rivelando del tutto irraggiungibili. Mercoledì era stato il sottosegretario all’Economia Federico Freni a spiegare al Financial Times che la tassa sugli extraprofitti era stata «comunicata male». Ancora un po’ e della tassa nessuno si ricorderà nemmeno più, né mai nessuno ne rivendicherà la paternità.
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